9.0
- Band: HEATHEN
- Durata: 00:59:24
- Disponibile dal: 12/04/1991
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Self
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Dipingendo di “Black” il loro quinto “Album”, i Metallica aprivano di diritto l’era più controversa e complicata del thrash metal. L’anno era il 1991 e, mentre all’orizzonte si addensavano nubi grigie e desolanti con tanto di cartello intarsiato di grunge, il fratello bastardo dell’heavy metal subiva, più o meno inconsciamente, una sterzata d’intenti, una sperimentazione, per alcuni un’autentica involuzione creativa, che avrebbe fatto storcere il naso a più di un defender della prima ora, o comunque a tutti coloro che fino all’anno precedente erano presi dallo scapocciare a destra e a manca sulle note di lavori come “Seasons In The Abyss”, sparato sulla folla da Tom Araya e compagni. Ma non tutto era perduto: se dal Brasile, per respingere le imminenti mode radiofoniche, i fratelli Cavalera se ne uscirono fuori con un certo “Arise”, se dal New Jersey gli Overkill realizzarono il possente “Horrorscope”, proprio dalla Bay Area di San Francisco una band decise di compiere un ulteriore salto all’indietro nel tempo, portando a termine, senza non poche difficoltà, un album che purtroppo, proprio per i suoi tratti anacronistici, non solo non ricevette il giusto riconoscimento, ma decretò anche la fine, seppur temporanea, del gruppo stesso. Loro erano gli Heathen e il disco in questione “Victims Of Deception”.
Cinquantanove minuti di thrash che più thrash non si può; tecnico, trascinante, impattante, per nulla inferiore ad altri full-length rilasciati in precedenza da colleghi ben più blasonati. Un album che segnava un notevole passo avanti rispetto al debutto, già ottimo, intitolato “Breaking The Silence”; un lavoro, a dispetto dell’innegabile lunghezza di alcuni suoi brani, in grado di coinvolgere in pieno l’ascoltatore grazie ad una serie di elementi semplicemente formidabili. Solidi tappeti di riff, ripartenze fulminee, assoli chirurgici, stacchi acustici, repentini cambi di ritmo, mescolati a dovere così da trasformare ogni pezzo in un autentico viaggio emozionale, a dir poco ipnotico. Un bolide a cinque marce, quello messo in moto dagli Heathen, guidati dal loro deus ex machina Lee Altus (era ancora lontano il suo passaggio negli Exodus) e che, come nell’album d’esordio, vedeva Doug Piercy nei panni di secondo chitarrista e David White, appena rientrato dopo una fuga durata un anno, dietro il microfono. Assoldato Darren Minter alla batteria, rimaneva da assegnare il posto vacante di bassista: ruolo che venne affidato in extremis al frontman dei Blind Illusion, Mark Biedermann.
Ultimo, o quasi, prodotto della Roadracer Records (prima del suo assorbimento da parte della capofila Roadrunner), “Victims Of Deception” prende il via con l’ammaliante voce del reverendo Jim Jones, simbolo assoluto di una delle pagine più tristi del fanatismo religioso, sfociata con un tragico suicidio di massa avvenuto nel 1978 in quel della Guyana. Toni aspri e accusatori, quelli del pazzo oratore, che aprono la strada ad “Hypnotized”: un titolo, un programma. Dopo un’intro cadenzata e melodicamente desolante, l’ipnosi comincia a suon di rasoiate su cui l’ugola pulita di White declara la sua personalissima critica nei confronti della religione, rea di manipolare le menti, promettendo false speranze in cambio di laute offerte danarose. Una corsa al fulmicotone, tramortita perfettamente dal buon Minter, sulla quale le asce di Altus e Piercy giocano a fare il diavolo a quattro. Un pezzo che, nonostante i suoi otto minuti, schizza via come una scheggia perforante in pieno volto. Ma è solo l’inizio: con “Opiate The Masses” l’asticella sale ancora di un gradino. Il primo minuto e mezzo del brano rappresenta quello che ogni thrasher vorrebbe ascoltare ogni mattina al posto del fastidioso ‘driiin’ proveniente dal vicino comodino: una lenta e melodica partenza ad anticipare il canonico stuolo di riff, utile a scaldare le vertebre del collo in vista dell’imminente headbanging. Un lungo scossone messo in piedi da Altus e soci che testimonia ulteriormente le qualità dei cinque Heathen, ponendoli di diritto tra i nomi di spicco del genere, pur senza ottenere il successo commerciale riscosso da altre realtà del momento.
Il capolavoro però è dietro l’angolo e s’intitola “Heathen’s Song”. L’incedere malinconico, il tono alla Bruce Dickinson di David White, ci porta brevemente alla “Revelations” di maideniana memoria; un leggero assaggio di NWOBHM prima di un massacrante up-tempo, cementato in tutto e per tutto sulle corde del duo Altus/Piercy, mentre là dietro di nuovo Minter pesta come un dannato. Ed è proprio la melodia uno dei tratti caratteristici del brano: intrufolandosi docilmente tra le stecche furiose, regala momenti di autentica euforia e quando anche gli assoli imperversano nel mare di riff l’apoteosi può essere finalmente servita; la seconda parte della canzone è semplicemente fantastica. Ascoltatela e basta. Come riprendersi da una scarica d’adrenalina simile? Prendete “Kill The King” dei mitici Rainbow e replicatela in salsa thrash. Il risultato? Un omaggio più che discreto ad un gruppo mostruoso, con White che, assodato l’ovvio divario, non sfigura affatto di fronte ad un autentico Dio del comparto vocale. Messo da parte il cover-time è il basso di Biedermann a rendere più cupo un ambiente che subisce l’ennesima sferzata con “Fear The Unknown”. Forse meno diretto rispetto ai precedenti episodi, il brano viene comunque valorizzato dalle singole prestazioni degli addetti alla strumentazione: da Altus a Piercy sino alla sezione ritmica, anche in questo caso i colpi ad effetto arrivano soprattutto nella seconda metà dei sette minuti previsti.
Bene, ora siete carichi al punto e giusto e nulla potrà scalfire il vostro stato d’animo. Se siete dunque così convinti dei vostri mezzi nevrotici, mettetevi comodi ed ascoltate “Prisoners Of Fate”, una thrash-ballad coi fiocchi che non vi lascerà tregua dalla prima all’ultima nota, tanto che quando lo sfumato metterà la parola ‘fine’ al brano, vi sentirete in obbligo di pigiare il tasto rewind per dare nuovamente inizio a quello che, per chi scrive, è un’altra perla dell’intero full-length. Esaurite le lacrime, se mai ne avrete versate, sgranchitevi le ossa e fatevi nuovamente sotto perché, c’era d’aspettarselo, “Morbid Curiosity” è di quelle cazzute a presa rapida, senza alcun rispetto per chi ha posto l’orecchio nelle vicinanze della propria cassa; leggermente monocorde ma qualitativamente valida e ricca di sublimi passaggi strumentali, a dimostrazione che gli Heathen, nonostante i diversi paragoni con band dell’epoca, Metallica e Anthrax su tutte, avevano uno stile ben preciso e ricercato. Un modus operandi che si traduce nella strumentale “Guitarmony”: una marcia sonora dai tratti arabeggianti in cui, come suggerisce bene il titolo, sono le chitarre di Altus e Piercy ad intavolare un quadro armonico di assoluto valore; una breve digressione in vista dell’ultima, definitiva, mazzata sui denti. Il testamento degli Heathen, almeno sino al 2001, anno della reunion, si chiama “Mercy Is No Virtue”: un monito tanto semplice quanto efficace che si rivela spedito sin dalle sue prime battute. Così sino a metà brano, quando l’ennesimo cambio di ritmo ci porta su un classico up-tempo dai caratteri sempre trascinanti, in attesa che i due axe-men aprano le danze per i rispettivi assoli; un ultimo scatto sino all’arresto finale.
Questo dunque è “Victims Of Deception”, album maledetto che, per svariati motivi, non trovò spazio e credibilità all’interno di una scena che stava lentamente cambiando pelle. In ritardo – e chiediamo scusa agli Heathen – paghiamo il giusto dazio ad un Signor thrash album, in attesa, come recentemente annunciato, del quarto lavoro in carriera previsto per la fine del 2020.