7.5
- Band: AMAROK , HELL (USA)
- Durata: 39:19
- Disponibile dal: 21/01/2014
- Etichetta:
- Pesanta Urfolk
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Concentrazione e dedizione totale, meticoloso e puntiglioso approfondimento delle possibilità espressive nel proprio campo d’azione rappresentano le doti essenziali di chi vuole svicolare dall’uniformità e apporre il proprio sigillo – vale nella musica come in ogni altro settore dello scibile. Ad Hell e Amarok, le band in coabitazione su questo split, questa dotazione morale non manca proprio. Oltre a questo, li distingue dal volgo la propensione a portare al martirio il proprio corredo strumentale, a fletterlo oltremisura all’esigenza di scavare nel suono, fino a squarciare tale ideale materia in un grido di dolore lancinante e infinito, gli Hell, e oscuramente lirico, gli Amarok. Queste due realtà appartengono allo sterminato pantheon sludge/doom a stelle e strisce, un sottomondo della cultura musicale americana che stiamo imparando a conoscere anche in Europa, nonostante il concetto di underground negli States possa essere ben più radicale che dalle nostre parti. L’interesse limitato per un certo tipo di suoni, così poco malleabili per il metallaro medio, restringono a una dimensione locale l’attività live dei gruppi di questa cerchia e rendono il prodotto discografico difficilmente rintracciabile. Il reperimento di talune pubblicazioni in formato fisico è spesso un’operazione avventurosa e dalle possibilità di successo ridotte. Hell e Amarok, se possibile, rincarano la dose, inasprendo la lontananza dai grandi circuiti internazionali rilasciando il proprio materiale in un numero molto ristretto di copie, distribuite poco capillarmente, affidando così al passaparola della rete la possibilità di diventare oggetto conosciuto negli altri continenti. Le analogie tra le due ermetiche entità in campo nello split, uscito originariamente a inizio 2013 e ora edito dalla rinomata label neofolk Pesanta Urfolk, sono sicuramente superiori alle differenze. Il doom inteso nell’interpretazione più paurosa, energica e annichilente è il trait d’union tra le due formazioni, mosse da un’urgenza che è praticamente una missione, quella di scandagliare la parte più lontana dalla luce del genere e di reinterpretarne i connotati secondo quanto dettato dalla propria unicità artistica. Gli Hell mettono in campo tre pezzi, in cui riducono rispetto al recente passato di “III” le istanze drone, concentrandosi di converso su inondazioni di sangue nerastro, calci nelle reni e ammorbanti strascicamenti di riff marci come gli Eyehategod più depravati e ribollenti di basse frequenze alla pari di quegli altri terroristi in slow-motion dei Thou. La compagine di Baton Rouge è quanto di più vicino all’operato degli Hell, che meglio di altri ensemble dalla medesima denominazione apparecchiano un baccanale realmente sulfureo, una raccapricciante scarpinata tra i gironi dell’Inferno dantesco senza alcun conforto né protezione. Qua è solo l’odio distillato a gocce dense ed emananti marciume a dominare. La voce di M.S.W. è l’esalazione vocale del Demonio quando ha preso pienamente possesso di un’anima, una sorta di Mike Williams meno hardcore e che sostituisce al disagio e alla marginalità una irreversibile possessione da parte del maligno. Ci si dondola sull’orlo di un vulcano in ebollizione con gli Hell, e periodicamente si viene interamente divorati dalle fiamme, vittime di un rogo destinato a durare imperituramente. La formazione di Salem (nell’Oregon, non è la stessa città del famoso rogo di streghe del 1692) non è così diversa dalle molte altre che sadicamente torturano i nervi e le carni degli ascoltatori con badilate di sludge tanto ponderose, solo lo fanno meglio. Gli Amarok in un certo senso vanno anche loro a toccare corde ben conosciute, e anch’essi alzano il tiro rispetto alla media, deliziandoci tramite una procellosa ed estatica composizione tra le meglio riuscite della recente epopea funeral doom dal tocco gotico. Il death funereo e dal movimento simile a quello di un elefante in marcia provoca ecchimosi nei minuti iniziali, prima che il discorso prenda una piega più dilatata, e facciano capolino i My Dying Bride in versione rarefatta e disperata all’ennesima potenza. Le tastiere drammatiche intrecciate ad echi di violino posti a metà strada di “V: Red Oak Wisdom” sono uno spaccato di umori sconfortanti, rivestito di una aurea romantica, tracimante nell’ecclesiastico, echeggiante il meglio del gothic doom dei primi anni ’90. La conclusione riannoda il filo con l’incipit, la musica si gonfia e aumenta di dimensione, riff giganteschi calano nobili e vibranti sulle nostre teste. Come si dice in questi casi, prendete due piccioni con una fava e andate a scovare due gruppi di spessore, che non andrete a dimenticare tanto in fretta.