7.5
- Band: HELLCRASH
- Durata: 00:36:48
- Disponibile dal: 23/05/2025
- Etichetta:
- Dying Victims Productions
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Non si fanno certo attendere più di tanto, gli Hellcrash, che senza chiedere il permesso irrompono nuovamente sul mercato discografico ad un paio di anni di distanza dal precedente “Demonic Assassinatiön” per ristabilire nuovamente le gerarchie nel loro settore di riferimento, lo speed metal.
Senza tanti giri di parole, infatti, “Inferno Crematörio” attinge da questo preciso segmento musicale molta della sua linfa vitale, secondo un “recupero delle tradizioni” in cui i Nostri, effettivamente, hanno sempre primeggiato. La grande forza del gruppo e dei suoi precedenti lavori, infatti, stava proprio nella capacità quasi miracolosa di rievocare un particolare sound, un’attitudine ed un’estetica primordiale con una cura – potremmo dire filologica – sbalorditiva, condita dal vigore e dalla foga giovanile che caratterizzava i suoi membri.
Oggi, qualche anno più tardi e con un po’ di pelo in più sullo stomaco, gli Hellcrash partono dalle stesse coordinate, cercando forse di aggiungere qualcosa in più ad una proposta che, fino ad oggi, faceva dell’impatto brutale la sua unica via espressiva. Tralasciando in parte gli stimoli thrash e metal-punk del passato, le nuove canzoni flirtano più smaccatamente con l’heavy metal ed i suoi risvolti ora melodici (“Purgatory Raiders”), ora più epici (“Oathbreaker”), cercando di condensare il tutto senza mai calare di un bpm o senza mai soffermarsi su momenti più lenti e distesi.
Dalla title-track in poi, il ritmo rimane sempre frenetico, forsennato, una scheggia impazzita su cui si installa un guitar riffing intricato e multiforme, quasi costretto a continue e repentine mutazioni per stare dietro all’elevata velocità dei pezzi. Lungi dal girare dietro ai soliti quattro accordi, gli Hellcrash mettono in piedi delle strutture decisamente composite, che rischiano però talvolta di rimanere inghiottite dalle mitragliate del doppio pedale, o dai tempi ciechi del batterista, una macchina da “tupatupa” senza pietà poco incline al cambiamento.
Non mancano fortunatamente episodi più diretti, dove la band sfodera ancora la sua capacità di scrivere metal anthem di valore: lo dimostrano gli highlight di “Sword Of Baphomet” o “Mark Of The Beast”, armamentario importante da poter sfoderare live, ma è proprio sull’ambizioso finale di “Templar’s Curse” – oltre dieci minuti di musica – che emerge ancora un sentimento di saturazione dovuto alle troppe (e poco collegate) partiture che compongono il brano: invece che lanciarsi in un progressivo viaggio narrativo, il pezzo vira bruscamente da una parte all’altra, finendo per creare della confusione e poca chiarezza espressiva.
Cercare di infilare più stimoli, più idee, nei rigidi spazi dello speed non è certo cosa facile, e sembra che talvolta il gruppo abbia finito per bruciarsi con il fuoco stesso della sua fiamma distruttrice: ciononostante, la fedeltà e l’autorevolezza con cui questi musicisti si rapportano al loro genere di riferimento rimane indiscussa, nonché difficilmente raggiungibile da molte altre band. Un gioiellino tutto italiano che, pur con qualche balbuzie, continua a latrare sguaiato il suo amore infernale per i primordi del metal e della musica estrema.