7.5
- Band: HELLLIGHT
- Durata: 01:16:57
- Disponibile dal: 15/07/2013
- Etichetta:
- Solitude Prod.
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“No God Above, No Devil Below”: quarto full per i doomster brasiliani. Una carriera così longeva (con una fondazione nel 1996) è una rarità nel panorama funeral doom e la perseveranza di comporre musica e cercare uno sbocco contrattuale in uno dei generi più difficili nel mondo metal meriterebbero già da soli un encomio. Ma gli HellLight non hanno bisogno di premi alla carriera: il loro nuovo lavoro è denso e sfiancante, si attacca addosso come un’ossessione e non vi abbandona, trascinandovi nella sua cupa disperazione. Il nichilismo che traspare dal titolo è sorretto da una musica in cui il basso ed una chitarra in downtune creano un muro continuo sulle basse frequenze, mentre la tastiera ed un’altra chitarra si alternano a dilaniare le casse, trascinando l’ascoltatore in un vortice di oppressione che scalza ogni speranza e fa soccombere la luce, rendendo evidente ed ineluttabile che non ci sia alcun dio sopra di noi, ne’ alcun diavolo ad attendere negli inferi. Il growl di Fabio de Paula è profondo, corposo andando quasi a sovrapporsi al basso, mentre il clean-singing adottato con una certa frequenza, trasmette una gelida sensazione di solitudine, incombente e funerea; l’alternanza delle due linee vocali, in cui il whispering ed il growl cedono alla voce pulita che riprende il riffing iniziale per poi essere seguita da un arpeggio che sancisce il ripetersi dell’intero pattern del pezzo. Non esiste tregua: la sfibrante disperazione di “Unsacred” e “Legacy Of Soul”, lascia il posto alle profondità infinite di “Path Of Sorrow” che ricorda la fatale oscurità dei primi Esoteric, con la sua staticità ed il rifuggire da qualsiasi dinamismo musicale, salvo il cambio di passo finale che ci regala un respiro, nel buio in cui gli HellLight ci precipitano. Nella seconda parte del disco, infatti, la band abbandona in parte le atmosfere di disperazione e ci colpisce con la spossante pesantezza di ogni singolo accordo che ci schiaccia. Il viaggio in cui i doomster brasiliani ci hanno accompagnato, si conclude con “The Ordinary Eyes” ed il disco si chiude con un assolo che ci abbandona in un luogo dimenticato, smarriti e confusi, con la pallida luce degli inferi ad illuminare la tetra desolazione e nessuno per riportarci a casa. Come ha detto John dei Catacombs, il doom è sperimentazione ed il funeral trova sempre nuove ed angoscianti strade per condurre l’ascoltatore alla più annichilente solitudine. Un ottimo disco, la cui atmosfera non può che colpire forte, facendo male; un lavoro non semplice da avvicinare, proponendosi tramite uno dei generi più estremi della musica metal, ma che può regalare, comunque, un’ora abbondante di lancinante dolore. Un’ultima nota: il voto espresso deve tener conto del gusto generale e della fruibilità globale del disco. Gli amanti del genere possono tranquillamente considerarlo con un punto in più.