8.0
- Band: HELLOWEEN
- Durata: 00:50:12
- Disponibile dal: 08/07/1994
- Etichetta:
- Castle Communications
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L’inizio degli anni’90 è stato tutt’altro che felice per le zucche di Amburgo, nonostante abbiano ottenuto uno straordinario successo artistico con i due “Keeper Of The Seven Keys”, veri e propri masterpiece del power metal, solo pochi anni prima. Perso per strada il chitarrista Kai Hansen (sostituito dall’ottimo, ma meno carismatico Roland Grapow), che di lì a poco avrebbe formato i Gamma Ray, i Nostri colgono la ghiotta occasione di siglare un contratto con una major (leggasi EMI). Questa scelta (almeno sulla carta) avrebbe dovuto far compiere alla band il definitivo salto di qualità a livello commerciale, ma le cose andarono in maniera ben diversa. Nel 1991 esce “Pink Bubbles Go Ape”, un lavoro sicuramente più melodico e meno roboante dei suoi predecessori, ma contenente al suo interno alcuni episodi di notevole spessore. Nel frattempo, si assiste ad un brusco calo di popolarità nei confronti del metal classico ed anche gli Helloween decidono di percorrere una strada alternativa, lontana anni luce da quanto proposto fino ad ora. Disprezzato dai fan della vecchia guardia, “Chameleon” è semplicemente un meraviglioso collage nel quale prendono vita una moltitudine di stili, che abbracciano il rock a trecentosessanta gradi; ma in questo caso l’audacia non paga , causando di conseguenza un vero e proprio disastro commerciale. Di conseguenza, la EMI decide di scaricarli senza troppe cerimonie, il batterista Ingo Schwichtenberg getta la spugna durante il tour e, come ciliegina sulla torta, si acuiscono le lotte intestine che si protraggono da tempo tra Michael Weikath e Michael Kiske, portando alla dipartita di quest’ultimo. Giunti a questo punto, agli Helloween spettano due scelte: sciogliersi o ripresentarsi con una nuova line up. Per nostra fortuna, la band ha deciso di proseguire la propria carriera ingaggiando l’ex batterista dei Gamma Ray Uli Kusch, mentre spetta al carismatico Andi Deris (proveniente dai Pink Cream 69) l’arduo compito di non far rimpiangere l’eccellente ugola di Kiske. Dopo solo un anno dall’abisso toccato con il contestatissimo “Chameleon”, gli Helloween si giocano il tutto per tutto, facendosi di nuovo sotto nel 1994 con un nuovo album di inediti intitolato “Master Of The Rings”, che già dal titolo si pone l’obiettivo di richiamare le sontuose trame più in linea con la proposta originaria della band. Saggiamente, i Nostri decidono di comporre brani in grado di valorizzare le corde vocali del nuovo arrivato, iniettando nel loro DNA robuste dosi di melodia pescate direttamente dell’hard rock melodico. La magniloquente introduzione strumentale “Irritation” ha il compito di far risorgere le speranze perdute della frangia dei fan più oltranzisti e la successiva “Sole Survivor” testimonia la volontà dei Nostri di tornare a parlare il linguaggio dell’heavy metal. Il brano è un autentico capolavoro tessuto su un riffing accattivante, puntellato dal preciso e terremotante motore ritmico composto dalla nuova coppia Kusch/Grosskopf. Gli Helloween ritrovano la giusta ispirazione anche negli episodi squisitamente power come “Where The Rain Grows” e “Still We Go”, nei quali viene messo a dura prova il talento di Deris. Quest’ultimo, anche se a testa alta, perde il duello contro il suo illustre ed inarrivabile predecessore, ma al tempo stesso dimostra di essere un interprete a dir poco superlativo nella romantica ballata “In The Middle Of A Heartbeat” e nel meraviglioso hard rock radiofonico di “Why”, ipotetica hit dal potenziale clamoroso, ma incomprensibilmente mai promossa come singolo. “Mr. Ego (Take Me Down)” è un’altra lussosa perla che mette in mostra la classe dei tedeschi, abili nel comporre con maestria un brano cadenzato dalle tinte hard, baciato da ammalianti linee vocali all’altezza del bridge e del chorus. Il contagioso incedere di “Perfect Gentleman” evidenzia tutta la sana ironia delle zucche, così come le frizzanti “The Game Is On” e “Take Me Home”, superficialmente viste come poco più di un divertissment, ma che possiedono l’innegabile pregio di incastrarsi alla perfezione nel meccanismo del disco. Soltanto il canonico heavy metal di “Secret Alibi” si pone su un gradino al di sotto della media, ma questo piccolo neo non scalfisce le qualità contenute in “Master Of The Rings”, un prodotto dal quale emerge la ritrovata voglia di divertirsi di un gruppo che solo pochi mesi prima aveva rischiato di svanire nel nulla e che invece ha inconsapevolmente costruito il trampolino di lancio della seconda parte della propria carriera. Identità ritrovata.