9.0
- Band: HELMET
- Durata: 00:36:56
- Disponibile dal: 23/06/1992
- Etichetta:
- Interscope Records
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Il rumore stesso del cemento di New York City. Il suono dei tombini fumanti del Bronx e delle scale anticendio arrugginite del Lower East Side che scricchiolano. La metropolitana di East Broadway che arriva in uno sferragliare assordante. L’asfalto, il ferro, la ruggine, la vernice, i mattoni, l’acciaio e il fumo di New York City, tutti che ribolliscono in trentasette inarrestabili minuti di schiaffoni metallici in piena faccia. Questo erano gli Helmet, il suono stesso di un inferno urbano. Tanto quadrato, spigoloso e massiccio quanto i “blocks” della Grande Mela. Gli Helmet erano assurdi quando sono apparsi sulle scene. Suonavano metal, ma avevano i Jeans, le scarpe da tennis, le t-shirt bianche, i capelli corti e le faccette pulite da studentelli. Il leader, Page Hamilton, un nerd/chitarrista jazz innamorato dei Big Black, dei Killing Joke e dei Sonic Youth, aveva unito le forze con un batterista hardcore, il maiuscolo John Stanier, per cambiare per sempre i connotati al metal come era conosciuto fino ad allora: dissonante, groovy, sincopato, intelligente, ricercato, e soprattutto, per la prima volta, fottutamente rumoroso. Il noise rock infatti grazie agli Helmet è diventato a tutti gli effetti pane per i denti dei metallari di mezzo mondo. Un risultato, se ci si ferma un attimo a riflettere, stravolgente. E il loro manifesto, il loro magnus opus, è con pochi margini di dubbio “Meantime” del 1992, stessa tigna e creatività del debutto “Strap It On”, ma con in più il sound e la rogna che possono derivare solo dal budget di una major. In sostanza, un album devastante, perfetto praticamente in tutto, che ha fotografato nitidamente una band al picco della propria sintonia interna e creatività, mossa dal solo obiettivo di stravolgere completamente una intera scena, e di proporre un sound completamente nuovo, quasi fosse un nuovo marchio. Insomma, un vero trionfo. Se la title-track in apertura è ormai un classico che non ha bisogno di alcuna introduzione, le rimanenti nove tracce sfondano i timpani colpo dopo colpo in egual misura, senza mollare mai la presa per un istante. Il groove spezza-schiena di “Iron Lung” e “Give It” fa immediatamente luce sul fatto che gli Helmet disponevano di un lusso raro: forse la sezione ritmica più precisa e cesellante mai apparsa sulla scena hardcore. Le propulsioni dispari di Stanier, insieme al suo rullante secchissimo e sempre in primissimo piano, e le linee di basso brucianti e pulsanti di Henry Bogdan, hanno spianato la strada verso nuovi orizzonti della composizione “ritmica” e della concezione del groove come baricentro (il nu metal deve baciare le natiche agli Helmet per l’eternità per questo) nella musica pesante, e influenzato una intera scena. Altri elementi bizzarri e fuori dagli schemi della visione compositva helmettiana erano senz’altro le liriche, a metà strada tra il parossistico e il minimalistco, volte anch’esse a perseguire un solo obiettivo, ovvero il groove e la fluidità di un attacco sonico che doveva essere irresitibile e fottutamente cesellante allo stesso tempo, con i significati letterali messi sul sedile posteriore. La voce di Hamilton, latrata e sguaiata, ha dato una voce al post-hardcore per generazioni a venire, e la sua delivery, come il tempo ha ampiamente dimostrato, era sguaiata solo in apparenza; dietro, in realtà, ancora una volta, era presente uno studio meticolosissimo della qualità “impattante” di un lavoro costruito per tappare con un suono mostruoso ogni singolo spiraglio disponibile. Gli assoli jazzati, rumorosi e deraglianti di Hamilton, inoltre, hanno reso bello il brutto, affascinante il rozzo e piacevole la cacofonia. In questo, Hamilton può essere considerato a tutti gli effetti il primo e per ora unico, vero erede d Steve Albini. Uno dei pochi che ha capito che il rumore, se lavorato nel modo giusto, può portare a risultati ben più strabiliati della semplice tecnica. Si potrebbe anche menzionare come la supersonica e squassante “Unsung” sia praticamente il “patient-zero” del post-hardcore, il primo contatto, la prima infezione che ha sprigionato un’epidemia inarrestabile; e come “FBLA II” abbia ridefinito il concetto stesso della distruzione sonica tramite il downtuning e una ripetitività compositiva squassante, ma assolutamente avvincente. In tutta la sua rozza, rude e inestetica semplicità, nulla può resistere all’impatto perfetto di questa canzone che ha ridefinito lo sludge metal. Inutile menzionare un pezzo piuttosto che un altro, comunque, visto che il disco in primis è un classico la cui (ancora una volta!) ambigua e strampalata copertina fregia da anni gli scaffali di tutti i negozi di dischi del mondo, e di cui è impossibile non subire la reputazione ormai praticamente autoritaria. In secondo luogo, questa raccolta di righe, più che una descrizione volta a far scoprire un lavoro importante, è più che altro un promemoria, sulla ormai imbarazzate fama di questo disco fenomenale. Bisogna, a tutti i costi, sentire “Meantime” regolarmente, soprattuto nell’anno in corso, visto che nel 2012 l’album spegne venti candeline; e ogni qual volta ciò accade, il presente appare improvvisamente più nitido e comprensibile. E questo solo i capolavori veri riescono a realizzarlo. Disco ormai eterno.