5.5
- Band: HELMET
- Durata: 00:37:51
- Disponibile dal: 07/09/2010
- Etichetta:
- Work Song
- Distributore: Goodfellas
Spotify:
Apple Music:
Recensire gli Helmet versione 2010 è una pena immane e un lavoro non facile. Non rispettare uno come Page Hamilton è cosa impossibile. Quello che negli anni novanta è riuscito a creare quest’uomo è qualcosa di strabiliante e stupefacente, e l’influenza del combo di New York, che si percepisce ormai in ogni angolo della musica pesante odierna, è ovvia e innegabile. Gli Helmet avevano fatto della semplicità e del groove un’arma micidiale e malleabile nella quale si erano altamente specializzati, creando sempre prodotti di qualità elevatissima che avevano sempre e comunque un impatto devastante. Trascinate da dei riff giganteschi e quadrati e da una sezione ritmica assolutamente fuori dal comune, le canzoni degli Helmet erano tutte degli istantanei classici: semplici, micidiali e memorabili. Oggi gli Helmet sono il guscio vuoto di quello che sono stati fino al primo scioglimento nel ’97. Ci sono sempre i ruggenti amplificatori di Page Hamilton, ma le idee e la sezione ritmica non ci sono più. Soprattuto quest’ultima che, oltre al basso propulsivo di Henry Bogdan, era appannaggio soprattutto di un batterista mostruoso e incredibilmente creativo (e lo sta dimostrando fin troppo bene nei Battles) come John Stanier, se n’è andata lasciando un vuoto incolmabile. Sarebbe più corretto chiamare gli Helmet di oggi la Page Hamilton Band o qualcosa del genere, perché effettivamente di questo si tratta: Hamilton da solo al comando di una band composta da gregari senza infamia e senza lode che sapranno anche suonare “In the Meantime” alla perfezione dal vivo, ma che quando si tratta di dare quella marcia in più a dei pezzi nuovi mancano clamorosamente l’obiettivo. C’è da dire comunque che della triade di album pubblicati dalla band nella nuova era post-Bogdan/Stanier (gli altri due sono il moscissimo “Size Matters” prima e lo scandaloso “Monochrome” poi), “Seeing Eye Dog” è sicuramente quello meglio riuscito, ed offre qua e là qualche sprazzo di genuino furore, ma sono episodi isolati. Come già accennato in precedenza i tempi di “Strap it On”, “Meantime”, “Betty” e pefino il sottovalutatissimo “Aftertaste” sono molto lontani. Senza Henry Bogdan e John Stanier la strada di Page Hamilton è tutta in salita, e una reunion è auspicabile al più presto per ridare a questa band lo status di leggenda che merita.