7.5
- Band: HOPESFALL
- Durata: 00:45:15
- Disponibile dal: 13/07/2018
- Etichetta:
- Equal Vision
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La parabola artistica degli Hopesfall, oggi protagonisti di un miracoloso rientro sulle scene dopo ben undici anni di assenza, si è sempre contraddistinta per la versatile tendenza alla sperimentazione su schemi post hardcore. Caratteristica che ha spesso reso il loro sound peculiare e quasi esclusivo. Dagli esordi dei tardi anni Novanta e dei primi anni Duemila, con lavori rimarchevoli quali “No Wings To Speak Of” e “The Satellite Years”, sino ad arrivare al più accessibile “A Types” e al complesso e inquieto “Magnetic North”, la personalità e la coerenza artistica della band statunitense sono sempre apparse inattaccabili. Il quintetto originario del North Carolina, pur sparendo del tutto per un lungo lasso di tempo, ha sempre condotto una carriera che, in vari periodi di asfittica coazione a ripetere, ha spesso rappresentato un esempio di talento creativo in costante e brillante rinnovamento. Ritrovatisi in gran segreto e senza alcun tipo di pressione addosso (dato che sia fan che addetti ai lavori li pensavano ormai morti e sepolti), gli Hopesfall in vari momenti degli ultimi anni sono riusciti a scrivere e a registrare “Arbiter”, un altro album carico della loro tipica potenza espressiva, nel quale insieme convivono elementi del più classico post hardcore e istanze sperimentali dalla spiraliforme traiettoria sonora. Fin dall’opener “Faint Object Camera” le cose sono messe senza indugio in chiaro: un riff groovy e spugnoso che presto concede campo alle solite oblique stilettate melodiche, liquide distese di suoni che traggono ispirazione dai mondi alternative e post/space rock, disegnando paesaggi tersi e ispirando suggestioni ora malinconiche, ora calde e serene.
Il tracciato sonoro è sostanzialmente quello di “Magnetic North”, dove una base tutto sommato aggressiva che può richiamare Glassjaw, Poison The Well o Deftones viene spessissimo decorata da un grande lavoro di chitarra solista, le cui melodie affascinano e seducono invocando a volte anche le soluzioni più eleganti di realtà come Hum e Smashing Pumpkins. Una dinamica miscela di influenze, ora capace di risultare diretta e bruciante, ora in grado di schiudersi su toni decisamente languidi e atmosfere trasognate, innalzando onde di malinconia capaci di arrivare sino al cielo; una proposta scavata nella tradizione post hardcore dei primi anni Duemila e poi gettata in un lago di emotività scaturito da ascolti a 360 gradi. Il frontman Jay Forrest, come al solito, si adegua, alternando istintivamente cantato e screaming vocals e colorando le trame con ulteriori pennellate di euforia.
Vi è qualche passaggio un po’ macchinoso nella tracklist – e difficilmente poteva essere altrimenti, vista la ruggine accumulata negli anni e la lunga gestazione del disco – ma il talento si sente ancora ed episodi come la suddetta opener, “H.A. Wallace Space Academy” o “Indignation and the Rise of the Arbiter” riescono a dimostrarsi subito preziose gemme sonore destinate a risplendere a lungo. Un bel regalo per chi, dal 2007 ad oggi, non aveva smesso di sperare in un ritorno del quintetto.