9.0
- Band: HOPESFALL
- Durata: 00:39:03
- Disponibile dal: 15/10/2002
- Etichetta:
- Trustkill Records
- Distributore: Universal
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L’avventura chiamata Hopesfall entra nel vivo qui, con l’uscita di “The Satellite Years”. I cinque ragazzi statunitensi, oltre a vantare – ad avviso del sottoscritto – un nome bellissimo, possiedono uno stile unico, che sta già influenzando varie formazioni dell’attuale scena new school hardcore, costruito attorno alla continua contrapposizione di situazioni aggressive, urlate e concitate, tra hardcore e metal, con intervalli di pacatezza contraddistinti da soffici e malinconici arpeggi di chitarre in stile indie e aperture post e space rock, su cui si appoggia la voce placida del dotato singer Jay Forrest. Detta in questo modo, ai profani potrebbe sembrare di avere a che fare con una band dallo stile sin troppo eterogeneo, ma in verità le cose non stanno affatto così. Il suono è vissuto, complesso, viscerale, apparentemente disorganizzato, a tratti caotico, ma tutt’altro che posticcio o iper prodotto. Questo non è semplice new school hardcore, nè tantomeno qualcosa di associabile a certe nuove tendenze “emo”: gli Hopesfall di oggi uno dei gruppi più personali della scena e la tracklist di “The Satellite Years” in questo senso parla chiaro, sorprendendoci in continuazione e arrivando a consegnarci composizioni incredibili come l’intro “Andromeda”, “Dead In Magazines”, “Only The Clouds” e “The Bending”. Rispetto al debut album “The Frailty of Words” e all’ottimo EP “No Wings To Speak Of” il gruppo ha un po’ smussato gli angoli degli spunti maggiormente aggressivi, limitando i breakdown e affidandosi ad un riffing di chitarra più sciolto ed istintivo, ma una certa carica heavy ed euforica viene di rado a mancare, anche se indubbiamente ciò che più risalta ai primi ascolti sono gli spezzoni in cui gli Hopesfall fanno emergere la loro vena elegiaca e malinconica. Non esistono tipiche strutture “strofa – ritornello – strofa” in questo disco, ma i pezzi tendono comunque a restare in mente proprio grazie a questi improvvisi break in cui la band abbassa il volume e tira fuori dal cilindro delle cantilene tanto fragili quanto toccanti. Una traccia come la succitata “The Bending” è perfettamente esemplificativa della portata del sound dei ragazzi: una struttura aperta e uno svolgimento che prevede un continuo cambio di registri, con tutta una gamma di influenze a darsi il cambio su un’atmosfera sempre votata ad un mix fra pathos e tensione. La componente “space” viene davvero fuori in queste soluzioni armoniche: la mente va alla copertina e ai suoi colori azzurri, l’immaginazione dipinge astronauti e rotte spaziali, satelliti e viaggi nel blu profondo. Un ascolto che talvolta porta anche serenità, assieme alla voglia di ammirare questo gruppo sul palco, anche se indubbiamente non sarà facile riproporre simili trame in sede live. Per adesso, in ogni caso, ci resta un album imprescindibile.