7.5
- Band: HORSEBACK
- Durata: 00:57:59
- Disponibile dal: 12/08/2016
- Etichetta: Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
Jenks Miller vive in un mondo tutto suo, è evidente. Un caleidoscopio fatto di folk e barbiturici, di profondo sud e schizoidi impennate sonore, di psichedelia, droni e luna park fatiscenti. E se tutte le parole fin qui elencate vi sembrano giustapposte senza apparente senso, beh, vuol dire che una prima idea di cosa racchiuda questo “Dead Ringers” ve la siete già fatta. Di fondo, il mastermind della band (qui accompagnato da John Crouch alla batteria e Nick Petersen al basso) si conferma un validissimo Neil Young dall’inferno, sebbene qui, rispetto alle ultime uscite, le derive più violente e folli segnino il passo; rispetto, per esempio, a quanto sentito in “Half Blood” qualche anno fa, non compaiono più digressioni alle soglie del black metal o scariche di adrenalinica chitarra pronta a ghermirvi. Qui, per lacerarvi l’anima, bastano elaborate southern ballads accompagnate da una voce eterea, il cui più evidente richiamo sta, secondo chi vi scrive, dalle parti di David Tibet; e quindi, parlare di follia controllata è persino riduttivo. Si affacciano poi reminescenze del Tom Waits più sperimentale e della delicatezza tragica di certo Dylan Carlson, attraverso otto brani che dividono essenzialmente in due parti l’album. I primi cinque pezzi godono di (splendida) uniformità in un equilibrio trino: tra ritmiche e suoni tutt’altro che di corredo, chitarre diafane e l’affascinante e suadente voce di Jenks – citiamo per darvi un’idea almeno l’iniziale “Modern Pull”, dove i rimandi ai citati Current 93 sono più evidenti ed emozionanti, anche grazie a lente spirali ritmiche prossime al drum’n’bass. La seconda parte sboccia con “In Another Time, In And Out Of Form”, apparentemente il pezzo più canonico che ci si possa aspettare, retto da un riff blues di assoluta e scarna semplicità; ma basta il feedback retrostante a renderlo in qualche modo morboso e altro. “Larkspur” vive similarmente in equilibrio tra minimalismo e pennate di chitarra, costruendo il crescendo verso la conclusiva “Descended From The Crown”: oltre un quarto d’ora di delicati neurodeliri, ché altra espressione per definire l’alternanza di passaggi liquidi e dissonanti che la compongono non è possibile. Manca qualche guizzo per il capolavoro, ma si conferma la presenza di un genio disturbato e affascinante in regia.