8.0
- Band: HOUR OF PENANCE
- Durata: 00:34:03
- Disponibile dal: 27/01/2017
- Etichetta:
- Prosthetic Records
- Distributore: Audioglobe
Mescolare le carte in tavola senza mai snaturare il proprio marchio di fabbrica, giocando di addizione e sottrazione per conferire ad ogni nuova opera un sapore diverso dalle precedenti. Dopo sette full-length e quasi vent’anni di carriera, sembra essere questa la prerogativa degli Hour of Penance, attenti conoscitori della materia death metal e tra le realtà più in forma del filone. Un percorso artistico coerente e privo di qualsivoglia passo falso, da sempre dedito alla rielaborazione di varie scuole di pensiero (americana in primis) e giunto con “Cast the First Stone” ad uno snodo cruciale, da assaporare con la consueta dose di adrenalina in corpo. Così, dopo la sbornia di stratificazioni e cambi di umore di “Regicide”, indubbiamente il disco più articolato del quartetto capitolino, ecco materializzarsi una tracklist ben più diretta, feroce e snella, che recupera l’indole old school dell’apprezzato “Sedition” e ne eleva aspetti quali orecchiabilità, robustezza delle ritmiche e senso della melodia, per un risultato complessivo fortemente indirizzato verso la tradizione dei Nineties. Un assalto a dir poco irrefrenabile, in cui a primeggiare – ancora una volta – sono le chitarre di Giulio Moschini e Paolo Pieri, prontamente spalleggiate dalla robusta prova al basso di Marco Mastrobuono e da quella tentacolare di Davide Billia alla batteria, all’insegna di un songwriting asciutto e per nulla interessato agli effetti speciali. Un pugno di brani che vanno dritti al sodo e si concentrano prima di tutto sull’impatto, sfoderando una lunga serie di riff memorizzabili, parentesi ariose ed esaltanti stacchi groovy, forse mai come questa volta pensati per essere eseguiti dal vivo. Poco più di mezz’ora di musica che invoglia naturalmente all’ascolto a ripetizione, disseminata di hit istantanee del calibro della titletrack, forte di un refrain catchy e contagioso, dell’epica e melodiosa “The Chains of Misdeed” o di “Wall of Cohorts”, pervasa da atmosfere black metal sulla scia di un vecchio episodio come “The Cannibal Gods”, fulgido esempio di perizia, ingegno e determinazione applicati al genere. Impossibile prescindere da tanta potenza.