8.0
- Band: HOUR OF PENANCE
- Durata: 00:39:31
- Disponibile dal: 25/10/2019
- Etichetta:
- Agonia Records
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Se i toni bluastri della copertina di Gyula Havancsák possono rappresentare un indizio, il contenuto di questa nuova opera firmata Hour of Penance toglie presto ogni dubbio e riporta le lancette dell’orologio al 2012, anno di pubblicazione dell’apprezzatissimo “Sedition”. Uno sguardo rivolto al passato che sa anche di mossa vincente, studiata da una formazione ormai imprescindibile all’interno del panorama death metal e la cui mira – oggi più che in qualsiasi altro momento della sua carriera – sembra quella di genuflettersi all’altare della vecchia scuola per imporsi come baluardo del presente. Di quel disco il quartetto recupera ogni istanza, dall’incedere falcidiante dei brani al perfetto mix di aggressione e melodia scaturito dal guitar work, e la eleva su livelli di crudezza sbalorditivi, sconfinando in una perfidia che poco o nulla ha da invidiare a certo black metal. I venti tempestosi che spirano da questi dieci episodi sono gli stessi rintracciabili nei vari capolavori di Angelcorpse, Morbid Angel e Sinister, filtrati però da una personalità e da un gusto in termini di songwriting che, dopo otto full-length, evitano ai Nostri qualsivoglia accusa di riutilizzo di precetti noti.
Vere protagoniste di “Misotheism” sono le chitarre, e intorno ai loro numeri da capogiro si materializza una tracklist che non lesina né in groove o in carneficine linearissime, né tantomeno in avvitamenti, parentesi ultraserrate e in solismi dal gusto apocalittico, trovando ancora una volta il giusto compromesso fra orecchiabilità e puro spirito distruttivo. Canzoni di senso compiuto che si imprimono a fuoco nella memoria e che non smettono di svelare nuovi dettagli con il passare degli ascolti, pervase da una malvagità a tratti palpabile e determinante nel conferire al tutto uno spessore quasi inedito (basti sentire le terrificanti “The Second Babel”, “Lamb of the Seven Sins” e “Dura Lex Sed Lex”).
Dopo la sbornia di soluzioni di “Regicide” e la relativa snellezza di “Cast the First Stone”, la band di Giulio Moschini confeziona quello che è indubbiamente il suo album più cupo e frastagliato, ma anche quello in cui la sua capacità di plasmare la materia death metal brilla maggiormente; un attestato di cuore e ingegno, caos e audacia, a cui risulta veramente difficile sottrarsi se appassionati di questo tipo di musica.