7.5
- Band: HUNGRY LIKE RAKOVITZ
- Durata: 00:28:00
- Disponibile dal: 01/01/2025
- Etichetta:
- Shove Records
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Dopo un silenzio durato anni, almeno a livello strettamente discografico, gli Hungry Like Rakovitz ritornano con “Pious”, un album che segna il loro rinnovato impegno sulla scena hardcore estrema. La band lombarda, che aveva lasciato il segno con opere come “The Cross is not Enough” e “Nevermind the Light”, riprende oggi il discorso stilistico lasciato in sospeso, ma con un approccio leggermente ricalibrato. Se il precedente lavoro, in particolare, era un’esplosione di dark hardcore con forti tentazioni black metal, qui troviamo una band che tutto sommato sembra alla ricerca di un diverso tipo di equilibrio, bilanciando certa ferocia iconoclasta con una aggiornata attenzione alla struttura e alla dinamica delle composizioni.
L’album si apre con la devastante “We Don’t Write Love Songs”, che funge da manifesto del nuovo corso del gruppo: un brano veramente valido e che presenta un po’ tutti gli elementi cardine del suono dei ragazzi, con particolare enfasi su dei riff che vanno a scavare soprattutto nel variegato retaggio hardcore della formazione. Il ‘problema’ di certe cosiddette blackened hardcore band è spesso lo scarso focus sui riff, per favorire un mood più fumoso che, alla lunga, anziché malignità, può ispirare noia e un senso di pressappochismo che deriva da una rilettura superficiale e stereotipata del genere. Per gli Hungry Like Rakovitz il discorso è sempre stato diverso, proprio perché, oggi più che mai, intervengono suggestioni di matrice tardi Novanta o primi Duemila che conferiscono al tutto maggiore tiro e sostanza. Qui, l’oscurità è uno strumento per costruire dinamiche, non un espediente per mascherare la mancanza di idee. Forse anche per una produzione più piena e potente che mai, il disco, a partire da questa opener, sembra rievocare un misto tra le sonorità di un tempo e un più frequente cenno a certo hardcore/metalcore tecnico e slabbrato che può ricordare Botch, certi Zao e i primissimi Norma Jean.
La parte centrale del lavoro mantiene comunque ancora qualche eco delle influenze black metal della band, con tracce come “A lot of Fun” e “We March To The Off Beat Of Our Drums” che portano arie gelide e oppressive. Tuttavia, anche qui si avverte un leggero cambio di priorità: queste incursioni nel nero profondo sono più contenute, quasi a voler creare un contrappunto piuttosto che rappresentare il cuore del progetto.
Un esempio lampante della capacità di sintesi degli Hungry Like Rakovitz è poi “Permanent Damnation”, uno degli episodi più rappresentativi dell’album. Il pezzo è un viaggio che abbraccia tutte le sfaccettature del sound della band, con una costruzione dinamica che culmina in un finale cadenzato e travolgente. È una chiusura che lascia il segno, dove la potenza fisica del groove si sposa perfettamente con un senso di drammaticità che tiene alta la tensione fino all’ultimo secondo.
Il risultato, dopo ascolti attenti, è insomma un album che respira, alternando momenti tesi e subito impattanti a sezioni più controllate e riflessive, per una tracklist dinamica, che consolida la direzione del gruppo e che presto dimostra che non serve esasperare le atmosfere per evocare potenza e oscurità: basta sapere calibrare gli ingredienti con raziocinio e visione. Un’opera che insomma rilancia la ‘carriera’ della band dopo tanti anni di relativo silenzio. Se oltre ai nomi citati stravedete per i vecchi The Secret o per formazioni come Integrity e Ringworm, un ascolto molto consigliato.