7.5
- Band: HYPOCRISY
- Durata: 00:50:27
- Disponibile dal: 26/11/2021
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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Spariscono dai radar, arrivano addirittura ad annunciare album di addio e scioglimenti, ma, alla fine, gli Hypocrisy ritornano sempre, come degli alieni di una qualsiasi saga cinematografica. Così, a distanza di ben otto anni dalla pubblicazione dell’apprezzato “End of Disclosure”, Peter Tägtgren e soci si e ci regalano l’ennesimo capitolo di una già satura ma assolutamente invidiabile discografia. Opportunamente spogliato di qualsiasi velleità sperimentale e di elementi che non rientrino nell’ormai noto codice della melodic death metal band di origine svedese, “Worship” procede dritto per la propria strada, mai rinunciando alla monolitica intensità ormai marchio di fabbrica del trio, ad una lunghezza da maratoneti del volume, nè si fa mancare, sotto sotto, una subdola quota di autocelebrazione, una rilettura e una reinterpretazione di sé che è costante di quest’ultima fase di carriera del gruppo. Se vi è un pregio nel repertorio degli Hypocrisy, questo è da parecchio tempo rappresentato dalla varietà alla base del songwriting della formazione: tra classiche bordate (melodic) death metal, midtempo trionfali, digressioni doom e persino pseudo-ballad decadenti, quando alle prese con un nuovo album siamo da tempo abituati ad assaporare composizioni dai più registri e puntualmente a drizzare le orecchie ad ogni cambio di passo. Difficile insomma annoiarsi davvero durante l’ascolto o tacciare la band di immobilismo, anche se ovviamente le formule a cui Tägtgren, Hedlund e Horgh si rifanno sono alla lunga sempre le stesse. Anche “Worship”, quindi, grazie a una tracklist attentamente studiata, trova modo di lasciarsi ascoltare e di farsi notare: il livello delle composizioni è mediamente alto e l’album procede come previsto, alternando vibrazioni mortifere e ultraterrene (la titletrack), groove dal piglio grigiastro e nichilista (“Dead World”), un girovagare meditabondo che si stempera nelle puntuali pennellate di malinconia (“We’re the Walking Dead”), accenni a un passato remoto mai davvero dimenticato (l’andamento morbidangeliano di “Brotherhood of the Serpent”) e le consuete cadenze lente, che sprofondano nell’ipnotico (”Bug in the Net”).
Pur in una cornice ben nota e già sentita, le cui atmosfere rimandano con insistenza a opere come l’indimenticabile disco omonimo o “The Arrival”, desta ancora bella impressione la capacità di Tägtgren di architettare ritornelli ficcanti o litanie amare di presa immediata. Chiunque abbia familiarità e apprezzi l’operato degli Hypocrisy da “Abducted” in poi è dunque probabilmente destinato a trovare qui almeno uno spunto o una canzone di suo gusto, oltre appunto a uno svolgimento narrativo dinamico e coerente, che sa come svelare nuovi dettagli a ogni fruizione, riuscendo in un modo o nell’altro a rivendicare sempre un ascolto.
Per una band giunta al tredicesimo full-length e al trentesimo anno di carriera, si tratta di elementi da non sottovalutare e di cui fare tesoro: rispetto a molti altri coetanei, gli Hypocrisy stanno invecchiando bene, portando avanti il loro approccio stilistico con un criterio e un’attenzione per i dettagli senza dubbio ammirevoli.