9.0
- Band: ICON
- Durata: 00:40:58
- Disponibile dal: 20/09/1985
- Etichetta:
- Capitol Records
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Ah, i magici anni Ottanta! Alcuni di noi li hanno vissuti appieno dal punto di vista musicale, tanti altri farebbero di tutto per poter guidare una DeLorean e tornare indietro di qualche decennio per scoprirne l’atmosfera e poterne respirare l’aria. Erano tempi durante i quali una band iniziava il proprio percorso con prospettive ben diverse rispetto a quelle attuali. La passione era certamente il carburante che spingeva a mille il motore di tanti giovani e talentuosi musicisti, ma le speranze di acciuffare un contrattone con una mega-casa discografica del momento, andare a incidere il disco in qualche rinomato studio di registrazione e girare il mondo a supportare il proprio lavoro erano obbiettivi più che leciti. L’illusione, insomma, era quella di diventare i nuovi Bon Jovi, Dokken, Quiet Riot, Motley Crue…
Ma anche in quei tempi d’oro per la musica che tanto amiamo, per ogni band che ha potuto raggiungere il successo planetario ce ne sono almeno altre dieci, o forse cento, che non hanno mai ottenuto il risultato sperato (e meritato). Le ragioni? Più o meno sempre le solite: una firma errata, il disco giusto nel momento sbagliato, qualche problema in fase di registrazione. Ecco, gli Icon sono un chiarissimo esempio di tutto ciò.
Intorno agli anni Settanta, cinque compagni di classe in quel di Phoenix, Arizona, decidono di creare una band, per ovvie ragioni chiamata Schoolboys. La firma con la casa discografica Capitol Records arriva ben presto – dopotutto il potenziale del quintetto è fin troppo evidente – e con essa anche il cambio di nome in Icon. Il disco d’esordio (“Icon”, 1984), pur carico di energia, risulta però ancora acerbo e non riesce ad ottenere i risultati commerciali sperati. Il gruppo decide di rimboccarsi le maniche e di rimettersi subito al lavoro, ma il suo secondo disco, quello che vi andiamo a raccontare, non nasce con i migliori presupposti. Non tanto per la scelta della Capitol di coinvolgere un songwriter esterno come Bob Halligan (che aveva già collaborato con Michael Bolton, Kix ed Helix) per aiutare la band nella stesura dei nuovi brani, cercando così un tocco più radiofonico, e neppure, almeno sulla carta, per la decisiane che cade nei rinomati Bearsville Studio di New York (Jimi Hendrix, Kiss, Led Zeppelin) per la registrazione del disco. La pazienza della major americana comincia a scricchiolare quando si accorge che il lavoro svolto in fase di mixaggio dal noto produttore Eddie Kramer è molto lontano da ciò che si sarebbero attesi loro e la band. Il disco non può essere pubblicato in queste condizioni e si dovranno sborsare altri fondi per metter mano alle canzoni ed ottenere quel sound tanto cercato. Ci penserà alla fine Ron Nevison, produttore che ha visto passare sotto le sue mani Bad Company ed UFO, nei suoi studio di Los Angeles a sistemare le cose. Il colpo finale arriva però poco dopo, quando il cantante Stephen Clifford comunica agli Icon di voler abbandonare il progetto a causa di un improvviso richiamo alla fede cristiana che, secondo lui, non poteva coesistere con il music business e la scena rock in generale. I dirigenti della major vanno su tutte le furie, tramite i loro legali strappano il contratto con la band e tengono in standby il disco, che verrà pubblicato solamente qualche settimana più tardi ma senza alcun tipo di supporto e di promozione.
Un vero crimine musicale, che spegne subito in partenza i sogni degli Icon, i quali, con il giusto sostegno, avrebbero potuto ottenere risultati molto positivi. Ancor oggi si può riconoscere a “Night Of The Crime” la capacità di unire con un’eleganza distinta ed indiscutibile le sonorità più classiche della scena AOR e melodic rock con passaggi più robusti di stampo classic metal. Un sound raffinato che si accende fin da subito sulle note di “Naked Eyes” e si esalta con l’incedere epico dell’indimenticabile “Missing”. La radiofonica “Shot At My Heart” avrebbe potuto regalare soddisfazioni commerciali non indifferenti se solo ne avesse avuto la possibilità. Le vibranti “Out For Blood” e “The Whites Of Their Eyes” – che strizzano l’occhio a Ratt e Quiet Riot – trasmettono la grinta necessaria e ci accompagnano fino ad un anthem di indiscusso valore quale “Raise The Hammer”. Le chitarre di Dan Wexler disegnano assoli di gran gusto, mentre l’ugola di Clifford è un punto forte dell’intero lavoro; che peccato averlo perso per strada! La sublime ballata “Frozen Tears” cattura con melodie catchy e arrangiamenti raffinati, mentre in chiusura viene posto l’irresistibile inno “Rock My Radio”, classico brano che potrebbe far cantare l’audience per ore ed ore durante uno show.
“Night Of The Crime” è una gemma di melodic hard rock e classic metal che non ha mai ricevuto le attenzioni che avrebbe meritato. Ma il bello della musica è che non scompare mai, è sempre lì da qualche parte, pronta per essere scoperta ed apprezzata, perchè per farlo non è mai troppo tardi!