8.5
- Band: IDLES
- Durata: 00:43:20
- Disponibile dal: 31/08/2018
- Etichetta:
- Partisan Records
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“I don’t care about the next James Bond / He kills for country, queen and god / We don’t need another murderous toff / I’m just wondering where the high street’s gone / ‘Cause I’m scum/ I’m scum”.
Basta vedere il video della loro esibizione da Josh Holland della nuova “Denny Nedelko” per capire che gli Idles sono tornati. E lo hanno fatto nel modo giusto. “Brutalism” era in effetti un ottimo disco, che lasciava presagire un futuro brillante per la band di Bristol, prosecutrice della new wave figlia della working class inglese (un po’ come gli Sleaford Mods). Detto fatto: “Joy As An Act Of Resistance” è un disco totale. Ci sono i pezzi, ci sono i suoni, c’è l’attitudine, c’è la performance. Difficile oggi non dare credibilità al post-punk sbarazzino degli Idles.
Ma andiamo con ordine. L’album inizia con “Colossus”: un brano che è già una dichiarazione di cosa può essere il post-punk oggi. Strofa pungente, ritornello cazzuto, spirito libero e poi un finale spiazzante. Niente standard quindi? No. Quelli ci sono, efficaci, più avanti nel disco, sparsi qua e là. Gli Idles hanno l’esatto spirito punk, forse non più legato alle grandi esagerazioni tradizionali, ma capace di infondere nuova linfa al genere. Almeno fino a “June” i primi cinque brani sono hit devastanti. “Never Fight A Man With A Perm” parte con uno di quei riff già memorabili alla partenza, su cui si assesta il timbro di Joe Talbot, a metà tra lo spoken word di un losco ubriacone da pub della provincia inglese e l’estro visionario di un crooner moderno. Sembra quasi liberatorio urlare il chorus “Concrete & Leather” come inno alla nuova shape of punk to come, come suggerivano i Refused qualche decade fa. “This snowflake’s an avalanche” si sente in “I’m Scum”, altro pezzone fondamentale del disco, anthem vero di un percorso fatto di belle canzoni e intenzioni ancora gagliarde. “Danny Nedelko” è un inno pro-immigrazione, potente ed esaltante, dove il prendersi sul serio è basato semplicemente su quanto la qualità della band possa portare a braccetto un pensiero reazionario. In questo senso gli Idles ci riescono in pieno. “My blood brother is an immigrant / A beautiful immigrant / My blood brother’s Freddie Mercury / A Nigerian mother of three”. L’attenzione rimane altissima con uno dei pezzi migliore dell’album, che esprime il totale concetto della vulnerabilità data dall’esposizione al prossimo, all’amato, al pubblico: “Love Song”. “June” allenta i toni, parlando della figlia nata morta di Talbot, che si rifugia in un brano potenzialmente non adatto alla tracklist, ma la generale tendenza dell’album a colpire nel segno non risparmia neanche questo tassello. Diventa quasi paradigmatico – e dotato di nuova linfa – quel “baby shoes for sale: never worn“, soprattutto se seguita da “Samaritans” (“I’m a real boy / Boy and I cry / I love myself / And I want to try / This is why you never see your father cry”) in cui si arriva al gender pride (il liberatorio grido finale “I kissed a boy and I like it!!”). Con “Great”, “Television” , “Gram Rock” e la cover di Solomon Burke “Cry To Me” siamo di fronte ad una decina di minuti efficaci che mantengono l’alto livello compositivo del secondo lavoro dei bristoliani: pezzi di due/tre minuti, diretti, efficaci, senza eccessivi fronzoli. Chiude l’album “Rottweiler”, must per i prossimi concerti della band, che finora hanno registrato sold-out in tutta l’Inghilterra: 5 minuti di post-punk sfegatato senza vincoli, libero, rumoroso e alcoolizzato. “Keep going! Keep fucking going! Keep going! / Fuck ‘em! Fuck ‘em! Go! / Smash it!/ Ruin it!/ Destroy the world! / Burn your house down! / Unity!”.
Il punk ai tempi della Brexit? Eccolo servito. Miglior album dell’anno o no – come suggeriscono in molti – non importa. Queste canzoni sono decisamente qualcosa.