8.5
- Band: IMMOLATION
- Durata: 00:40:19
- Disponibile dal: 31/05/1999
- Etichetta:
- Metal Blade Records
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Temporalmente, la prima parte di carriera degli Immolation fu di certo molto particolare: a differenza della stragrande maggioranza delle band, ancor più quelle formatesi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, i ragazzi di New York, pur avendo alle spalle una buona produzione di materiale antecedente lo storico debutto “Dawn of Possession” (1991, coevo di “Human”, “Blessed Are the Sick”, “Butchered at Birth”, “Effigy of the Forgotten” e via discorrendo), non riuscirono affatto a dare continuità alla loro discografia sulla lunga distanza, addirittura zittendosi completamente nei cruciali anni 1992 e 1993, per ricomparire solo nel 1996 con il secondo disco – altra bomba atomica! – “Here in After”. Fu questa release – fortuna loro – a rimettere in circolazione il nome Immolation, che però ebbe bisogno di altri tre anni per ingranare definitivamente la marcia e procedere spedito dall’ingresso nel nuovo millennio ai giorni nostri. Chissà, quindi, quali vette avrebbero potuto raggiungere Ross Dolan e Rob Vigna, i due integerrimi componenti sempre presenti nel gruppo, se non avessero avuto tali ritardi e intoppi ad incipit di carriera.
Fermiamoci però al 1999, anno in cui gli americani pubblicano il loro terzo album, un terzo capolavoro: se “Dawn of Possession” risentiva ancora dell’influenza di Death e Morbid Angel, pur creando già un discreto unicum compositivo oggi assurto ad oggetto di culto, e se “Here In After” ci aveva già presentato un sound death metal ricco di dissonanze, perizia tecnica indiscussa e cupa brutalità, in “Failures For Gods” i Nostri manipolano in modo più diretto le loro materie prime (dissonanza e massacro, appunto) iniziando ad unirle ad un lieve sentore epico-apocalittico che esploderà poi più avanti con la pubblicazione di “Harnessing Ruin” (2005) e, soprattutto, di “Shadows in the Light” (2007) e “Majesty and Decay” (2010). In “Failures for Gods” assistiamo al primo cambio di formazione nel corso della storia degli Immolation: il batterista Craig Smilowski abbandona il gruppo e al suo posto viene reclutato Alex Hernandez, proveniente dai concittadini Fallen Christ. Hernandez porta in dote al quartetto forse un briciolo di fantasia in meno, ma una velocità d’esecuzione impressionante e martellante, il che porta i compositori principe nella band a creare un compendio di brani più diretto e devastante rispetto al caos controllato di “Here in After”, in modo da dare al nuovo album un impatto più frenetico e mai domo, vorticoso e più a ruota libera.
Chiaramente siamo al cospetto di un sound estremo, che ad orecchie poco allenate può risultare scevro di differenze tra un lavoro e l’altro; gli scostamenti tra essi si vanno ad annidare nei dettagli, nelle sfumature, nel mood complessivo del platter, ma qui si percepisce abbastanza chiaramente l’urgenza espressiva che gli Immolation riversano nelle otto canzoni componenti la tracklist, che rallentano quel tanto che basta per far rifiatare l’ascoltatore, prima di rimandarlo nell’apnea totale degli assalti tellurici di doppia cassa e del riffing che, più che circolare, sembra quasi progettato a spirali concentriche, sempre più profonde e strette, da lasciar senza respiro. Vigna e Wilkinson non hanno ancora pienamente nelle dita le magnifiche aperture melodiche che seguiranno in futuro, soprattutto da quando arriverà alla seconda chitarra Bill Taylor, ma nella chiusura della conclusiva “The Devil I Know”, ad esempio, già si percepisce quel tipo di ispirazione a venire; quindi si lanciano imbastarditi e irrequieti in vere e proprie rasoiate velocissime che non lasciano scampo, assecondate dal basso di Dolan – molto sacrificato nel mixing finale, ahinoi – e ovviamente dalla prestazione fuori dalla norma di Hernandez. Anche gli assoli, seppur presenti in “Failures for Gods”, rivestono minore importanza rispetto a quanto fatto nella globalità della discografia degli Immolation. Il growl di Ross, anch’esso un tratto distintivo della band, in questo lavoro echeggia relativamente piatto e monocorde, ma ciò non è affatto un male, in quanto “Failures for Gods” funziona bene così: ignorante, senza fronzoli, un volgare abuso di potere.
Il brano che meglio rappresenta l’album, e la band com’era allora, è certamente la titletrack, che raccoglie tutti gli elementi presenti nello stile del gruppo lasciando spazio anche ad un anomalissimo assolo di basso, che prelude ad una parte più groovy davvero assassina. Ecco, presentandovi questo lavoro come uno dei più veloci e pesanti del combo yankee, in realtà i momenti salienti di esso sono da rintracciare negli episodi più vari e cangianti. Indimenticabile anche la canzone che oggi sarebbe usata probabilmente come singolo apripista, ovvero “No Jesus, No Beast”, con il suo verso ripetuto “Can you hear us? / Death to Jesus!” a guidarci nella blasfemia più appagante, per poi decollare a velocità supersoniche e con un solo stratosferico. Non sono da meno tutte le altre tracce, con probabilmente solo il pacchetto centrale composto da “God Made Filth” e “Stench of High Heaven” a non raggiungere il livello memorabile del resto.
I testi di Dolan, certo non esattamente pro-Divino ma anche dotati di un’accettabile dose di profondità, e la solita grande copertina dell’artista tedesco Andreas Marschall completano il pacchetto in dote ad un lavoro che termina una trilogia d’esordio, seppur fin troppo dilatata nel tempo, imprescindibile per chiunque si ritenga un fan devoto del death metal americano. Chi seguiva gli Immolation già in quegli anni si può affermare che abbia avuto un occhio davvero lungo. E la stessa cosa non si può dire d’altri gruppi ben più blasonati, non trovate? Bellissimo, senza se e senza ma.