9.5
- Band: IMMORTAL
- Durata: 00:46:07
- Disponibile dal: 22/02/1999
- Etichetta:
- Osmose Productions
- Distributore: Audioglobe
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Quando uscì “At The Heart Of Winter” l’aria era già diversa da quella che si respirava quando dischi storici del black metal della seconda ondata vedevano la luce, benché fosse passato solo poco più di un lustro. Nel 1999 si erano già consumati e superati, più o meno, scontri ideologici sulla purezza del black e delle sue diramazioni, gente come i Dimmu Borgir o i Cradle Of Filth avevano già sparato le loro cartucce migliori e c’era una generale aria di rinnovamento nel metal tutto; possiamo nominare decine di dischi usciti quell’anno che sapevano di pulizie di primavera, di album di passaggio per muoversi verso qualcos’altro oppure creare un sound del tutto nuovo: da “Endorama” dei Kreator a “IX Equilibrium” degli Emperor, da “Projector” dei Dark Tranquillity a, per dire, “Rebel Extravaganza” di Satyr e Frost. Usciva anche un album che sarebbe poi diventato il “Reign In Blood” del black metal, cioè “Panzer Division Marduk”, e, non ultimo, quello che, inaspettatamente, con la sua copertina glaciale ed un logo per la prima volta leggibile e a modo suo ‘maturo’, diverrà forse il punto più alto della carriera degli Immortal. Non è, infatti, “At The Heart Of Winter” il miglior disco prettamente black metal della band, né il più cattivo, né il più veloce, ma è un disco che racchiude in esso un incontro perfetto fra il prima, il dopo, e il ‘prima del prima’ della band. Il black tagliente come la punta di una stalattite si sporca di thrash, di heavy metal, di death, emergono i fasti del passato della band, le visioni di quello che saranno poi i due fantastici successori di questo album, e i fari guida di Abbath e soci – Bathory ovviamente in prima linea – esplodono come mai prima d’ora nella carriera dei tre di Bergen. Una folta schiera di blackster potrebbe leggere queste parole sanguinando metallo fuso dagli occhi, ma di fatto, anche a vent’anni esatti di distanza dalla sua pubblicazione, “At The Heart Of Winter” rappresenta il culmine dell’evoluzione del suono degli Immortal, raggiungendo picchi nei quali la capacità di scrittura, l’esecuzione, il ‘tiro’ e il mero lavoro di fino su tutta la produzione si incontrano nel modo più felice possibile. In tutto questo conta non poco, ovviamente, l’apporto di colui che all’epoca era un po’ il nome di punta di tutto il metal estremo, quel Peter Tägtgren che ospitò i norvegesi nei suoi Abyss Studio maneggiando assieme a loro ciò che sarebbe stato il quinto lavoro di una delle formazioni più a sé stanti del loro stesso genere musicale. Il forzato passaggio di Abbath alla chitarra (e basso e synth, nel disco) a favore di un Demonaz bloccato dall’ormai storica tendinite rende i pezzi più cadenzati, i giri più grezzi e ‘classici’, a modo loro, laddove i testi dello stesso Demonaz mantengono vivo l’accecante mondo di Blashyrk, e dove un Horgh ormai in pianta stabile crea pattern di batteria da far quasi male nella loro incredibile varietà (cosa non fa su “Where Dark And Light Don’t Differ”, ad esempio?). I brani hanno una durata media più lunga del solito, attestandosi tra i sei e gli otto minuti e mezzo, e godono di una struttura più complessa e rallentata, con un blastbeat ridotto e presente praticamente nella sola, perentoria, opener, “Withstand The Fall Of Time”, un brano meraviglioso che mette subito in chiaro l’epica che avvolgerà tutti i tre quarti d’ora del disco. Un’epica che però non setta immediatamente le coordinate dell’album, vista la fluida ricchezza dei sei pezzi, tutti uniti da un unico filo conduttore eppure ognuno così peculiare: dal groove puramente metal e a tutto tondo di “Solarfall” alle cavalcate di “Tragedies Blows At Horizon”, il tutto farcito dagli iconici arpeggi glaciali, vero trademark della band. La già citata “Where Dark And Light Don’t Differ” è puro veleno, secca e dritta, con un tentativo di voce che esula dallo screaming classico per uno stile più profondo, mentre la titletrack ferma per un attimo le distorsioni e apre con chitarre che davvero riescono, assieme ai sintetizzatori, a creare quell’effetto di tundre ghiacciate che Demonaz intende evocare coi suoi scritti. Quando, alla fine della sostenuta e conclusiva “Years Of Silent Sorrow”, con i suoi arpeggi malati e quel finale maestoso, ci troviamo a decidere se riporre il disco nella sua custodia o giustamente riascoltarlo da capo, la sensazione è di gelido intontimento, non più come in passato per la furia cieca che ci aveva assalito, bensì per un senso di compiutezza, di annichilimento, che ci pervade di freddo nelle ossa e di impietosa soddisfazione. No, non siamo di fronte al miglior disco prettamente black degli Immortal, ma senza dubbio al loro apice compositivo e, probabilmente, al loro capolavoro. Fondamentale e senza tempo, attuale e fresco (freddissimo, anzi!) anche oggi.