IMMORTAL – Diabolical Fullmoon Mysticism

Pubblicato il 21/12/2022 da
voto
8.5
  • Band: IMMORTAL
  • Durata: 00:34:59
  • Disponibile dal: 01/07/1992
  • Etichetta:
  • Osmose Productions

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Pensare che questo disco abbia compiuto trent’anni fa un certo effetto, soprattutto per chi è stato adolescente quando il black metal era qualcosa di giovane, se non proprio una novità. E adolescenti o poco più erano gli stessi Demonaz ‘Doom Occulta’ e Abbath ‘Doom Occulta’ quando hanno concepito la loro opera prima, un debutto incendiario già dalla copertina.
Ogni appassionato di black metal conosce gli Immortal quale band essenziale per la scena norvegese, tra le primissime ad abbandonare definitivamente le sonorità death metal in favore di una concezione nuova e senza dubbio rivoluzionaria del metal estremo. Se infatti escludiamo il seminale EP “Deathcrush” dei Mayhem, risalente addirittura al 1987 – che fa per varie ragioni storia a sé – è principalmente grazie a tre dischi che possiamo realmente iniziare a parlare del tanto chiacchierato ‘black metal norvegese’: “Burzum”, full-length di debutto dell’omonimo progetto di Count Grishnackh aka Varg Vikernes, il secondo album dei DarkThrone, “A Blaze In The Northern Sky”, e appunto questo “Diabolical Fullmoon Mysticism”, tutti pubblicati nel 1992.
È un anno di notevole fermento artistico, nel quale vedono la luce anche gli storici demo “Wrath Of The Tyrant” degli Emperor e “Bloodlust & Perversion” dei Carpathian Forest, oltre al debutto degli svedesi Marduk, “Dark Endless”. Quest’ultimo è musicalmente ancora fortemente debitore degli stilemi death metal, scena dalla quale provengono la stragrande maggioranza dei musicisti che hanno dato vita alla cosiddetta ‘seconda ondata’ black metal. Gli stessi Immortal nascono dalle ceneri di due death metal band, ovvero Old Funeral e Amputation, i cui demo ed EP sono stati in seguito ristampati perché divenuti negli anni oggetti di culto.
L’assetto originario del gruppo vedeva le due menti Demonaz (Harald Nævdal) alla chitarra e Abbath (Olve Eikemo) al basso e voce, coadiuvati dagli ex compagni Jørn Inge Tunsberg alla chitarra e Armagedda (Gerhard Herfindal) alla batteria. Il quartetto registra nel 1991 una manciata di brani che finiscono sul demo omonimo, cui segue pochi mesi dopo un sette pollici chiamato anch’esso semplicemente “Immortal”, inciso dopo l’allontanamento di Tunsberg.
È con questa formazione a tre elementi che i musicisti della contea di Vestland entrano nella prestigiosa sala da concerto Grieghallen di Bergen, storica sede dell’Orchestra Filarmonica della città e ‘studio di registrazione’ nel quale hanno preso vita alcune tra le pietre miliari del black metal norvegese. Da qui i tre ragazzi usciranno con in mano un disco che suona gelido, veloce, epico, grezzo, maligno e melodico allo stesso tempo, e che – soprattutto – non somiglia a niente di già ascoltato. Certo, le influenze sono quelle che ci possiamo aspettare, quindi Bathory e Celtic Frost su tutti, ma i norvegesi non si limitano a ripetere la lezione, e dopo averne interiorizzato i precetti ne risputano fuori una propria personalissima versione. La base di partenza è costituita dal materiale pubblicato nel (brevissimo) EP, che viene rivisto, migliorato ed ampliato: il risultato è un disco che, pur nella sua semplicità, contiene già dei classici e traccia le basi per le opere più mature e complesse che verranno.
Una voce che ha ben poco di umano sussurra parole incomprensibili tra il sibilare di un vento insistente, il tutto sullo sfondo di un arpeggio di chitarra acustica; questa breve introduzione lascia immediatamente spazio ad uno dei brani più iconici, non solo del disco ma dell’intera carriera degli Immortal: “The Call Of The Wintermoon” è un capolavoro di maligna epicità e dimostra immediatamente che Abbath e Demonaz hanno già una visione ben chiara della propria musica, nonostante i mezzi a disposizione siano limitati e l’esperienza ancora poca. Il livello di scrittura è già molto buono, e la tendenza all’utilizzo di riff ipnotici è affiancata da cambi di tempo che si snodano lungo una struttura di una certa complessità. Il brano mette in risalto le brevi rasoiate di chitarra di Demonaz e il contributo sorprendentemente vario di Armagedda dietro le pelli, oltre a farci prendere confidenza con lo stile canoro ancora ‘in fase di definizione’ di Abbath, più grezzo e sepolcrale rispetto ai lavori successivi.
Per il pezzo viene anche realizzato un video, presto diventato oggetto di culto quanto di scherno: vediamo il terzetto aggirarsi tra boschi e rovine gotiche (la location ritratta nella copertina) con fare tra il minaccioso e il comico, non sappiamo dire con che grado di consapevolezza e auto-ironia. Si tratta di una produzione che possiamo definire pionieristica, realizzata in pochissimo tempo (un pomeriggio, per l’esattezza) e praticamente senza budget, documento prezioso di un’epoca sicuramente naif ma anche dallo spirito totalmente autentico e genuino. Molto meno improvvisati appaiono invece i testi scritti da Demonaz e interpretati da Abbath, un misto di satanismo, mitologia pagana e adorazione della natura scandinava, più elaborati e poetici della media dell’epoca.
“Unholy Forces Of Evil” spinge sull’acceleratore mantenendo al contempo intatto – se non aumentando – il lato ‘catchy’, per certi versi vicino al thrash metal del suono della band, mentre “Cryptic Winterstorms” è un pezzo cadenzato e sulfureo, nel quale torna a fare capolino la chitarra acustica, che impreziosisce le oscure trame tessute dai demoni norvegesi. Si tratta di brevi fraseggi, forse non al 100% organici rispetto all’ordito generale, ma che contribuiscono comunque a creare l’atmosfera intrisa di gelo e misticismo che è peculiare a questo lavoro.
E se “Cold Winds Of Funeral Dust” non aggiunge poi moltissimo a quanto offerto nella prima metà del disco e “Blacker Than Darkness” sembra fare il paio con “Unholy Forces Of Evil”, è la conclusiva “A Perfect Vision Of The Rising Northland” a farsi ricordare: lunga e articolata, vede l’inserimento di elementi nuovi. Su una struttura in midtempo dall’incedere inesorabile, si innestano infatti – oltre agli arpeggi acustici – brevi inserimenti di tastiera, mentre Abbath azzarda qualcosa di diverso dalle urla, inserendo alcune strofe in cantato ‘recitato’ e pulito, algido e distante. Si tratta di un altro pezzo atmosferico, che rallenta ulteriormente nella seconda metà per assumere toni sinistri doomeggianti (in modo non troppo dissimile a quanto proposto nello stesso periodo dai Carpathian Forest) e racchiude un ultimo assolo tagliente come una stalattite di ghiaccio. Interessanti anche le linee di basso, come sul resto del disco, anche se non sempre completamente intelligibili. E a tal proposito dobbiamo spendere due parole su suoni e missaggio, croce e delizia di questo primo capitolo: la produzione, ad opera di Eirik Hundvin, è ovattata, il suono vuoto; se da un lato questa caratteristica sarà destinata a diventare in parte elemento fondante del genere, quasi al pari del cantato in scream o del corpsepaint, è certo che qualcosa è andato perso, soprattutto in termini di aggressività e incisività.
Non è semplicissimo sintetizzare in un voto un album dall’importanza storica quale questo, valutare in termini di ‘punti’ il genio irripetibile, l’attitudine e le piccole ingenuità di giovani musicisti. Ma essendo (anche) questo il nostro compito, lo facciamo con la consapevolezza di chi sa che “Diabolical Fullmoon Mysticism” ha condotto ad immensi capolavori all’interno di una discografia che – a dispetto delle critiche – non conosce cadute di livello.
L’opera prima degli Immortal rappresenta il lato più grezzo della produzione targata Demonaz e Abbath, ma è anche – quasi paradossalmente – un disco più vicino all’epica grandiosa di “At The Heart Of Winter” (concepito ben sette anni più tardi) che all’inarrestabile bufera di neve e ghiaccio rappresentata dai suoi immediati successori “Pure Holocaust” e “Battles In The North”. Insomma, un lavoro ‘minore’ solo se messo a confronto con altri capitoli di una produzione monumentale, il cui valore assoluto resta prezioso. Un disco da riscoprire qualora non lo faceste girare nello stereo o sul piatto da molto tempo, o da ascoltare per la prima volta se non vi foste mai spinti fino agli albori discografici della band. E quale occasione migliore del Solstizio d’Inverno?

TRACKLIST

  1. Intro
  2. The Call Of The Wintermoon
  3. Unholy Forces Of Evil
  4. Cryptic Winterstorms
  5. Cold Winds Of Funeral Dust
  6. Blacker Than Darkness
  7. A Perfect Vision Of The Rising Northland
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