7.0
- Band: IN FLAMES
- Durata: 00:51:39
- Disponibile dal: //2002
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Audioglobe
La pietra dello scandalo. Il Grande Tradimento. La svolta. “Reroute To Remain”, sesto studio-album degli In Flames, segna un deciso cambiamento nelle coordinate musicali della proposta dei cinque pard di Goteborg. Apertamente influenzati ed affascinati dalle sonorità moderne e contaminate dei gruppi d’Oltreoceano che, proprio nei primissimi anni di inizio millennio, cavalcavano l’onda del successo, dovuto anche ad un grande tam-tam radiofonico e televisivo, i nostri svedesi partoriscono un disco “diverso” dal solito e si staccano, anche e soprattutto a livello attitudinale, dalla scena death metal europea. Basta Fredman Studios, basta Fredrik Nordstrom, look da nu-metaller con capello lungo: i nuovi punti saldi per la registrazione e la produzione del nuovo platter diventano i Dug-Out Studios di Uppsala e l’ottimo Daniel Bergstrand (passato alla storia, fra l’altro, per aver contribuito alla creazione dello storico “Destroy Erase Improve” dei Meshuggah), tramite i quali scaturisce un suono deciso, secco e piuttosto cupo. L’aspetto grafico ritorna efficace, affidato all’estro nascente e visionario di Niklas Sundin, autore di un artwork introspettivo e particolare. Il disco, ancora una volta, non si può definire completamente estraneo al death metal, anzi, le caratteristiche di base della musica degli In Flames rimangono le stesse, ovvero potenza e melodia, qui però connesse ed elaborate in modo nuovo e di certo meno ortodosso. Prendono piede in maniera sempre maggiore sia le variazioni vocali di Fridèn, sia i campionamenti e i loop elettronici, questa volta opera di Orjan Ornkloo, il quale coglie bene (questo bisogna ammetterlo) le esigenze della band, mettendo al servizio di essa una serie di idee azzeccate (sentire a proposito “Cloud Connected” e “Free Fall”, ruffiane quanto volete ma bellissime!); la melodia, come accennato sopra, è presente in modo perentorio, sebbene non provenga più dai riff di chitarra, bensì strabordi nei chorus estremamente orecchiabili, forse l’aspetto che più fa storcere il naso ai vecchi fan della band, scontenti anche dell’abbondanza di parti chitarristiche stoppate e/o triggerate (“Transparent” è molto vicina al nu-metal più aggressivo). Inoltre, il quintetto scandinavo decide di inserire nel disco ben quattordici brani, davvero troppi, che finiscono con il creare per forza un paio di filler tranquillamente dimenticabili: non è il caso, però, delle due ballate acustiche presenti in “Reroute To Remain”, “Dawn Of A New Day” e “Metaphor”, poste in tracklist quasi a dimostrare come il passato folkish della band non sia stato dimenticato; chi scrive ama i due pezzi citati, carichi di feeling nostalgico e crepuscolare, sebbene abbiano ben poco di folk. Ottima anche la song scelta come secondo singolo, “Trigger”, dotata di un ritornello clamorosamente commerciale, ma altrettanto esaltante. Non mancano alcune veloci cavalcate power-death tipiche degli standard In Flames, anch’esse però mutate e infettate dal “trigger-virus”, e ci riferiamo a “Drifter” e “Egonomic”, mentre le restanti track si evolvono fra alti e bassi ispirativi, comunque sempre impostate su una ricerca melodica e vocale molto attenta e, in fin dei conti, apprezzabile. Criticato oltremodo negativamente, spesso con i paraocchi, “Reroute To Remain” rappresenta il tentativo, riuscito per tre quarti, operato da Anders e compagni di rigenerarsi e aprirsi nuove strade musicali e – ovviamente – commerciali. Che da questo momento in poi l’immagine degli In Flames, agli occhi del metallaro medio, si presenti con un leggera puzzetta sotto il naso, sinceramente crediamo che alla band interessi davvero poco…