7.0
- Band: IN FLAMES
- Durata: 00:42:45
- Disponibile dal: 09/09/2014
- Etichetta:
- Sony
- Distributore: Sony
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Buio in sala, giù il sipario, inizia il nuovo atto. A tre anni di distanza da “Sounds Of A Playground Fading” – disco di transizione, come lo era stato “Clayman” tra l’epoca di “Colony” e quella di “Reroute To Remain” – torna la band più chiaccherata di Svezia con “Siren Charms”, undicesimo album destinato a segnare l’inizio del terzo capitolo per coloro che, ormai vent’anni fa, scrissero alcune delle più belle pagine dell’allora nascente Gothenburg sound. Tralasciando ogni tipo di dietrologia rispetto ai motivi di questa nuova spinta evolutiva – Patto con il diavolo / major? Ipnosi da biglietto verde? Frenati dalle corde vocali di Friden? Stasera su Kazzenger! – ci limitiamo a sottolineare il coraggio di chi, piaccia o meno, continua a guardare sempre e comunque avanti, e ci avviciniamo all’ascolto con quel misto di curiosità e timore che, ahinoi, sempre meno dischi oggigiorno sanno trasmetterci. Introdotta da un pattern elettronico in stile “Deliver Us”, l’opener “In Plain View” sfocia subito nel classico riffing e ritornello a là In Flames 2.0, contrapposti ad una strofa che ricorda molto più i compianti Passenger: decisamente un buon modo per dare fuoco alle braci, anche se il meglio, come vedremo, deve ancora arrivare. Superata di slancio la zavorra di “Everything’s Gone” – senza dubbio la meno ispirata del lotto, nel riproporre senza troppa convinzione gli stilemi più pestoni delle ultime produzioni -, il nuovo corso prende definitivamente il via con “Paralyzed”, perfetto ibrido tra pattern elettronici, ritmiche metalliche e un cantato che, pur avendo perso in potenza, ha guadagnato in espressività; per chi se la ricorda, la degna erede di “Self Vs Self”. Ad inspessire la patina di malinconia che, complice la registrazione presso gli Hansa Tonstudio di Berlino, avvolge l’intero album, ci pensa poi quella che, con ogni probabilità, è la traccia più controversa del platter, ovvero il secondo singolo “Through The Oblivion”; spiazzante ad un primo impatto, ma poi rilassante e rassicurante come una madeleine al retrogusto di “My Sweet Shadow”, di cui si finisce col non essere mai sazi. La navigazione oltre le colonne d’Ercole dei ‘vecchi’ In Flames prosegue tranquilla con “Eyes Wide Open” – altro episodio melanconico, il cui fascino deriva proprio dall’amalgama tra tradizione ed evoluzione -, salvo poi arenarsi sugli scogli della title-track, i cui saliscendi non anmmaliano come sarebbe stato lecito attendersi. Dopo tanta quiete, si torna a viaggiare veloci sulle note di “When World Explodes”, traccia da playlist ‘Energy Mix’ in cui, di fianco ad un ritrovato vigore strumentale, trovano posto le eteree female vocals di Emilia Feldt – ora sì, che lo sentiamo il richiamo delle sirene! – e gli immancabili arrangiamenti elettronici: rispetto alla pur ottima “Dead Ends”, siamo su un livello di maturità decisamente superiore. Disinserito il pilota automatico di “Rusted Nail” – perfetto come primo singolo e pronto a fare sfracelli in sede live; eppure sinonimo di un passato prossimo sempre meno presente -, si torna a sterzare il timone con “Dead Eyes”, ennesimo mid tempo ‘a là Passenger’, caratterizzato però da un tono più allegro, come se la malinconia autunnale avesse lasciato il posto all’entusiasmo primaverile. A conferma di un finale di tracklist albeggiante, troviamo il ritornello ‘fantastico’ di “Monsters In The Ballroom” – per il resto un po’ anonima, come quasi tutti i frangenti più tirati -, e la ben più scanzonata “Filtered Truth”, ideale punto di approdo dopo un lungo viaggio, nonché sorta di urlo liberatorio che, a differenza del divertissement di “Liberation”, ci auguriamo possa avere altri riscontri in futuro. Giunti alla fine di questa lunga disanima, è tempo di tirare le conclusioni; e, ispirati, dal titolo, lo facciamo affidandoci all’immagine dell’eroe omerico per eccellenza. Spinti dallo stesso multiforme ingegno che animava Ulisse, gli In Flames Y2K si muovono su una rotta non priva di insidie – dal rischio di compiere passi falsi, come accade in 2-3 pezzi, alla certezza di deludere chi, inutilmente, attende un loro ‘ritorno a casa’ -, ma che, tappa dopo tappa, li conferma nel ristretto novero delle ‘band cui affidare il futuro (mainstream) del metal’. Chi scrive, pur ritenendo 9/10 della loro passata discografia superiori a questo undicesimo full-length, continua ad apprezzarne l’evoluzione darwiniana; e chissà che, tra una dozzina di anni, non ci si trovi a parlare di “Siren Charms” con la stessa nostaglia con cui, oggi, si ascolta “Reroute To Remain”.