
6.5
- Band: INBORN SUFFERING
- Durata: 00:56:54
- Disponibile dal: 07/02/2025
- Etichetta:
- Ardua Music
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Proseguono senza sosta anche per questo 2025 le uscite death-doom, sottogenere che ha regalato più di un lavoro degno di nota lungo l’anno appena passato. Così, dopo i catalani Onirophagus il mese scorso, ecco arrivare sul mercato anche i francesi Inborn Suffering, fondati nell’ormai lontano 2002, ma autori finora di solamente due lavori, l’interessante debutto “Wordless Hope” del 2006 e il discreto “Regression To Nothingless” del 2012.
Il loro impianto sonoro è saldamente legato al suono dei maestri My Dying Bride e Anathema di inizio carriera, agli albori di questo particolare ambito stilistico; in particolare dai primi mutuano un certo gusto melodico, mentre dai secondi una chiara predilezione per le atmosfere soffuse e dilatate.
A ben vedere, l’asso nella manica dei parigini è proprio questa capacità di dipingere sontuosi scenari musicali, che emergono dalle loro lunghissime composizioni, certo non contraddistinte da scintillante originalità, ma di indubbia classe e consistenza. Tale propensione potrebbe avvicinarli a certo metal atmosferico delle ultime decadi, se non fosse che l’impianto generale rimane comunque fortemente connesso agli anni Novanta; c’è da sottolineare inoltre la volontà di affidarsi principalmente agli strumenti classici del metal nella costruzione di questi maestosi paesaggi sonori, riducendo al minimo gli interventi di solo sintetizzatore; perciò, molto probabilmente, l’etichetta migliore per descrivere la loro proposta risulta essere proprio ‘death-doom melodico’.
Il nuovo album “Pale Grey Monochrome” si presenta molto compatto, senza particolari cadute di stile; spiccano la prima composizione vera e propria – dopo una breve introduzione ambient – “From Lowering Tides”, dall’incedere epico e avvolgente e caratterizzata da partiture armoniose e solenni, la title-track, impreziosita da azzeccatissimi interventi di tastiera, e la conclusiva “Drawing Circles”: semplice, lineare, di durata contenuta, ‘solo’ sette minuti e mezzo, con i suoi passaggi semiacustici, la voce recitata e la chitarra solista suadente vale più di mille riff e cento cambi di tempo.
Troppo slegata nella struttura invece la lunghissima “Tales From An Empty Shell”, benché baciata da emozionanti partiture di chitarra ritmica e solista. Considerata la lunghezza delle composizioni e di conseguenza la varietà di movimenti, i Nostri riescono tutto sommato a mantenersi fluidi, a non perdere il bandolo della matassa, a rimanere coerenti e intelligibili, ma l’attenzione richiesta all’ascoltatore rimane di certo consistente.
La voce offre la giusta varietà passando agilmente dal growl più profondo al cantato pulito, comprese alcune sfumature intermedie, la chitarra solista, quasi onnipresente, arricchisce e caratterizza le composizioni senza risultare invadente. Gli arrangiamenti sono molto ben curati, il suono è adeguato alla proposta, le prestazioni dei singoli strumentisti assolutamente impeccabili, nella loro semplicità. Rispetto ai precedenti capitoli non si riscontrano particolari stravolgimenti: la proposta rimane sostanzialmente invariata, se si esclude una maggior cura nel processo di scrittura e registrazione, a scapito però dell’originalità dell’insieme, che risulta, se possibile, ancor meno personale.
Di death metal, in verità, qui c’è molto poco, quasi nulla, se si esclude il cantato growl, tuttavia il clima plumbeo e magniloquente sopperisce alla mancanza di corposi riff di chitarra e rabbiose accelerazioni; mai si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un album troppo facile o leggero.
Tirando le somme, gli Inborn Suffering convincono per la capacità di riproporre con autorevolezza uno stile consolidato che ormai fa parte della tradizione metal; un ambito che sta a cavallo di Black Sabbath e Pink Floyd, ragionando in termini di influssi primgeni, dove la lentezza e le asprezze vengono mitigate da una particolare attenzione alla cura del suono e degli arrangiamenti.
La prevedibilità di fondo unita alle lungaggini fa inevitabilmente scendere la soglia di attenzione, e, considerando che i parigini al terzo album e soprattutto al ventesimo e passa anno di carriera artistica non intendono minimamente uscire dalla loro zona di comfort, rimanendo in tutto per tutto una band di genere, forse sarebbe opportuno per loro intervenire almeno sulla prolissità delle composizioni.
Sia chiaro, rimane sempre e comunque un bel sottofondo musicale, ma per mantenere vivo l’interesse dell’ascoltatore servirebbe una maggior essenzialità nella struttura delle canzoni: siamo convinti che ciò non farebbe perdere sostanza alle loro imponenti creazioni musicali e amplierebbe anche lo spettro dei possibili destinatari, che ad oggi non possono che essere i soli appassionati del death-doom più atmosferico e canonico.