7.5
- Band: INCULTER
- Durata: 00:38:06
- Disponibile dal: 27/03/2015
- Etichetta:
- Edged Circle Productions
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Nati per travolgere. Nati per uccidere senza concedere il beneficio della benché minima misericordia. Il ricco underground norvegese sta sfornando negli ultimi anni interessanti proposte di black/thrash metal a cavallo tra le rasoiate extreme thrash di prima metà Anni ’80 e i culti demoniaci del decennio successivo. Un incrocio reazionario, un macabro ritorno alle origini colmo di devianze orrorifiche, dai contenuti essenziali, un cocktail virulento concepito e suonato con lo spirito dei prime mover e la necessaria inventiva per non affogare nel mare del citazionismo di bassa lega. I più famosi di questo filone, grazie alla sponsorizzazione di quella vecchia volpe di Fenriz sulla sua ormai famigerata pagina facebook “Band of The Week”, sono i Deathhammer – fuori, guarda caso, grosso modo nello stesso periodo col terzo disco, “Evil Power” – ma anche entità minori quali Toxik Death, Condor, Nekromantheon hanno già messo in luce interessanti doti, tra rivisitazione di arcinoti stilemi, rabbia inconsulta ma lucida, quel minimo di senso della melodia e di richiami al metal classico che ispessiscono la caratura artistica e tramutano idee di per sé elementari in album degni di essere ascoltati a ripetizione. E, come per questo “Persisting Devolution”, amati incondizionatamente, di un amore barbaro e incontrastabile, privo di se, di ma, di ragionamenti e timori. Gli Inculter sono dannatamente giovani (i membri sono tutti sotto i 20 anni), meravigliosamente convinti dei loro mezzi, desiderosi di appagare prima di tutto se stessi, e quindi i fan degli stessi ensemble che li hanno ispirati, facendoli scapocciare insieme al gruppo come se non ci fosse un domani. Quest’esordio su lunga distanza (prima un Ep, “Stygian Deluge”, e uno split coi Reptilian, entrambi editi nel 2013) è compatto, tutta sostanza e zero orpelli, un furibondo concentrato di primi Slayer, Kreator, Bathory e Celtic Frost, a cui il trio formato da Remi, Even e Kato ha aggiunto un ingrediente sfizioso, imprescindibile nell’economia del lavoro. Trattasi delle armonie ariose e gelide, terribili, promanate dai Watain nel corso di tutta la loro storia. Ogni canzone vive di questo dualismo, che poi è una miscellanea coesa e bilanciata, fra rasoiate thrasheggianti e spaccati atmosferici, assalti alla baionetta ed evocazioni di entità superiori e nient’affatto rassicuranti. Si sente che la band ha studiato la materia approfonditamente, molto meglio della media dei colleghi dediti a questa branca del “sapere” metallico: i ragazzi hanno metabolizzato la lezione dei precursori del movimento estremo prestando attenzione non solo a quanto tutti, bene o male, riescono a capire e professare, ma anche alle sfumature, agli accorgimenti necessari a trasformare una baraonda indefinita in brani con una presa degna del morso di un coccodrillo. La metrica di Remi rimanda a quelle dei giovani Araya e Petrozza e, soprattutto, di Erik Danielsson, senza dimenticare Johannes Andersson dei Tribulation, in particolare sul primo disco “The Horror”. Il cantato affonda le sue fauci nella nostra carne con insana spregevolezza, mentre il guitar-work si spende frenetico fra momenti serrati, cadenzati tambureggianti e aperture black metal tremolanti, enfatiche, poste di norma dopo le sfuriate iniziali, e tese a innalzare un castello di paure irrazionali, che chiamano a noi entità infami provenienti dall’oltretomba. “Persisting Devolution” vive di strappi, stop’n’go devastanti, senza cambiare granché il piano di battaglia nelle singole tracce; ogni capitolo dell’opera è però distinguibile dai precedenti e dai successivi per qualche giro chitarristico ad effetto, ricami dissonanti che vanno ad accostarsi ai Coroner di “Punishment For Decadence” e “No More Colors”, portando a quella sensazione di disorientamento ben nota ai cultori del celeberrimo act elvetico. Non ci sembra il caso di entrare in profondità in una disamina delle tracce contenute nel disco, che al di là di qualche ghirigori in più in quelle di maggiore durata, non presentano significativi cambi di direzione. Gli interventi solisti di ascendenza classic metal sono un’ulteriore delizia da gourmet, e quando il tour de force di “Envision Of Horror” – il pezzo migliore, tra l’altro – va lentamente placandosi, è forte la voglia di riprendere il viaggio e immaginarci quanti disastri possano combinare questi invasati sulle assi di un palco. Una poco sobria e graditissima lezione di violenza.