7.5
- Band: INNO
- Durata: 00:49:33
- Disponibile dal: 28/02/2020
- Etichetta:
- Time To Kill Records
- Distributore: Goodfellas
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A metà strada tra una novità assoluta ed un supergruppo tutto italiano – in realtà sono entrambe le cose! – piombano sul mercato discografico gli Inno, band che esordisce su Time To Kill Records con un buonissimo debut-album intitolato “The Rain Under”.
Abbastanza fuorvianti, se si volesse scoprire il genere proposto partendo dai quattro membri, le esperienze precedenti e/o attuali che convogliano nel background stilistico del gruppo: solo Giuseppe Orlando, per chi non lo sapesse ex-Novembre ed impegnato attualmente anche con The Foreshadowing e Airlines Of Terror, si associa rapidamente alla scena dark-gothic-atmospheric metal a cui gli Inno, volenti o nolenti, si possono principalmente accostare; difatti, nè il death metal roboante e sinfonico dei Fleshgod Apocalypse (l’ex Cristiano Trionfera, qui chitarra), nè le crude efferatezze di Hour Of Penance, Coffin Birth e Buffalo Grillz (Marco Mastrobuono, basso), nè lo stoner acidissimo ed esoterico dei Riti Occulti (l’ex Elisabetta Marchetti, voce) danno indizi validi per approcciarsi alla scoperta delle sonorità in seno a questa nuova formazione.
Una volta messi assieme tutti gli elementi, però, e premuto il tasto play, basteranno una solida manciata di ascolti a “The Rain Under” per mostrarsi nella sua più nuda natura: gli Inno sono esordienti e si percepisce piuttosto bene come, probabilmente, in futuro sapranno plasmare e plasmarsi meglio attorno al loro songwriting; ma già da queste prime nove tracce – più la notevole cover dell’immortale “High Hopes” dei Pink Floyd – si odora qualcosa di buono ed accattivante. Siamo di fronte ad un gothic metal atmosferico e moderno, impreziosito da spesse divagazioni progressive che debordano e mutano forma attorno ad uno stile che ingloba anche influenze quali Porcupine Tree, Tool, Opeth di metà carriera, a tratti pure certi The Ocean meno corrosivi. La potente vena malinconica e nostalgica che permea quasi costantemente e globalmente il disco è però associabile in modo più corretto ad una band che bilancia le sue produzioni degli ultimi quindici anni proprio a cavallo tra atmosfere plumbee e dark e giochi di progressive-groove molto all’avanguardia: tale gruppo si fa chiamare Katatonia e chiunque attenda con impazienza l’imminente “City Burials” farebbe bene a scaldare le orecchie con robuste fruizioni di “The Rain Under” degli Inno.
La presenza dell’ottima Elisabetta Marchetti dietro il microfono, chiaramente, induce a formulare altri ingombranti paragoni e rimandi, che possono essere i The Gathering di Anneke – ma anche quelli di Silje Wergeland, perchè no? – così come i Lacuna Coil di dischi quali “Unleashed Memories” e “Comalies”: alcune linee vocali composte, espressive, decadenti, ma anche crepuscolarmente epiche, rammentano proprio i vocalizzi della Scabbia nazionale. Con ciò, con questa caterva di riferimenti, comunque, non vogliamo mettere fuori strada l’ascoltatore, facendo passare gli Inno per dei meri rimescolatori di sonorità altrui. No, in “The Rain Under” c’è musica onesta, spontanea e primariamente bella e piacevole da ascoltare, scritta e arrangiata da quattro musicisti che hanno deciso di unire le forze per passione, voglia di provare qualcosa di diverso dai loro progetti correnti e, probabilmente, anche per bisogno di buttar fuori sentimenti nascosti e ribollenti sottopelle. Basti ascoltare bene, per darvi un’idea della profondità delle strutture, gli inserti di percussioni che, improvvisi, si palesano qua e là; o gli ottimi soli e i giri di prima chitarra in primo piano di Trionfera; oppure ancora le lievi pulsioni elettroniche usate e le fugaci partiture di tastiera, fino ad arrivare ad alcune eleganti linee di basso.
E’ un album che, in definitiva, si insinua subdolamente tra le sinapsi, lasciandosi scoprire piano piano, passando dall’apparire un compendio piuttosto orecchiabile di brani dark-gothic metal ad un ottimo insieme di episodi zeppi di arrangiamenti curatissimi, particolari che emergono ascolto dopo ascolto e riff e melodie che vanno via via migliorando col tempo, presentando una vincente varietà non apprezzabile da subito. Non vi vogliamo indicare tracce prevalenti su altre, ogni canzone ha la sua sfaccettatura ed i suoi momenti alti, per andare a modellare un mosaico omogeneo ma diversamente speziato, come fosse ad esempio uno dei più malati quadri di Bosch: uno spaventoso, ma affascinante, ricordo d’incubo.