8.5
- Band: INQUISITION
- Durata: 01:04:44
- Disponibile dal: 20/11/2020
- Etichetta:
- Agonia Records
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Fughiamo subito ogni polemica: i crimini di cui è stato accusato Dagon un paio d’anni or sono, sommati al sempre poco trasparente ricorso al patteggiamento, gli ha ben valso una generale messa al bando nel mondo metal. Su queste pagine, però, la nostra condanna sul piano morale ed etico per i crimini o le ideologie più odiose, netta e chiara, non preclude il giudicare il prodotto artistico della persona coinvolta, tenuto peraltro conto che nessun tipo di collegamento o ripugnante difesa è presente nel lavoro degli Inquisition; e ferma restando la scelta di non acquistare il disco, evitando così di sostenere la band.
Complice, chissà, proprio il forzato stop legato al licenziamento da parte di Season Of Mist, all’ostracismo subito e, possiamo immaginare, a un senso personale di difficoltà, gli Inquisition tornano con un disco intenso e ragionato, che da una parte esalta le loro componenti migliori, dall’altro introduce novità tutt’altro che insignificanti; regalandoci così quello che, a nostro parere, va di diritto tra i picchi black metal dell’anno. Non cambia nulla pur cambiando tutto, potremmo dire parafrasando Il Gattopardo, visto che il primo elemento che salta subito all’orecchio è la trasformazione vocale messa in atto da Dagon; non più sempre e solo il suo caratteristico gracchiare inumano, bensì una forma atonale che si colloca a metà strada tra quanto fatto in passato e gli Immortal, band che è da sempre un riferimento cardinale per il chitarrista colombiano, ed al cui sound, con questo “Black Mass For A Mass Grave”, Dagon e Incubus si avvicinano come non mai, pur con l’ormai acclarata personalità. Restano ovviamente i brani-fiume, ancora più cangianti e ricchi di passaggi che si rifanno all’heavy tout court, tanto nelle sue componenti più classiche, quanto in un certo gusto epico. Le tracce non smentiscono l’eterna ricerca di un approccio ipnotico e a tratti elegiaco: prendete per esempio “Hymn to the Absolute Majesty of Darkness and Fire”, che – per chi ama le etichette – tocca anche lidi post-black, e persino una certa atmosfera depressive, in una sintesi che ha una sua profonda poesia; anche nel titolo, che ci fa immaginare la band isolata, magari nelle pacchiane pose delle loro foto in mezzo alla neve, a osservare un mondo da cui è ormai avulsa.
Pur all’interno di un flusso musicale ben tracciato e definito, si moltiplicano i cambi di tempo e i momenti dissonanti ed evocativi, con il ricorso anche a inediti e vincenti innesti di tastiere, che spesso si limitano a seguire e rinforzare i bridge di chitarra, ma dipingono anche trame a sé stanti dal gusto folk e trasognato (“Majesty Of The Expanding Tomb”). Assumono poi un ruolo centrale i midtempo, arricchiti qui dai numerosi arpeggi acustici e dalle succitate tastiere, donando al sound della band un gusto quasi oscuramente psichedelico. Come da tradizione, abbiamo anche due brevi ma maestosi intermezzi dall’aria esoterica, rappresentati da “Ceremony For The Gathering of Death” e della titletrack sul finale, che rinforzano la sensazione di una serie di brani narrativamente connessi e sospesi come detto in un universo altro, atroce e mistico. Veniamo sferzati da venti squassanti e assordanti, in mezzo ai quali possiamo cogliere canti rituali o il suono di strumenti ammalianti che quasi ci ipnotizzano; è questo il modo più semplice e insieme indefinibile per provare a descrivervi l’ora abbondante di musica qui presente, e forse solo in un certo eccesso di durata troviamo l’unico, vago difetto di un disco impeccabile e magico.
Perché proprio qui sta la forza di questo disco. Il senso di malessere putrido che caratterizzava i loro precedenti dischi, sommato a una distanza siderale e misantropica che pareva mettere in musica i racconti di Lovecraft, si trasforma in questo caso in un disagio diverso: più intimista, più soffocante e non per questo meno intenso, anzi. Se questo sia il frutto di patemi o percorsi interiori compiuti da Dagon, non ci è dato di saperlo, né ci interessa molto, come da premessa. Quello che è certo è che, qualunque futuro attenda gli Inquisition in termini di vendite o comparsate live, nemmeno la più assoluta damnatio memoriae può cancellare il valore del loro secondo capolavoro consecutivo.