8.5
- Band: INTER ARMA
- Durata: 01:06:48
- Disponibile dal: 12/04/2019
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Ci sono gruppi che incarnano il metal nella sua più autorevole essenza, che ne spremono il nettare più pregiato e lo travasano direttamente in quanto suonato, senza perderne nemmeno una goccia. Entità che possono prescindere dalle classificazioni, essere solo e semplicemente i migliori rappresentati di un suono che, attraversando una miriade di sfaccettature, grazie a gente come gli Inter Arma non sarà mai anacronistico, un patetico ricordo per inguaribili nostalgici. I ragazzi di Richmond abbiamo ben imparato a conoscerli con quei colossi di “Sky Burial” e “Paradise Gallows” e a poco meno di tre anni da quest’ultimo, li riabbracciamo con trasporto, per farci nuovamente sopraffare, indurci alla meraviglia, immergerci in un immaginario vasto, dettagliato, dove tutto appare enorme e potente. Una sensazione di grandiosità è ciò che permea ogni composizione degli Inter Arma, fosse una barbara razzia sludge, uno struggente crooning, un affogare angosciante nelle melme del death-doom. Oppure ancora un disperato rattrappimento nei lutti del funeral doom e un perdersi cieco in deserti sonici che richiamano tribalismi, stoner, classic rock. Proprio da qui è il caso di partire, con gli echi spirituali e il febbrile tono profetico di “Howling Lands”; pezzo incardinato su un cantato pulito da brividi, percussioni marziali e incessanti, un sospirare degli strumenti che inghiotte e purifica, ricorrendo a tessiture che richiamano un lungo peregrinare nel deserto. In contiguità a questo brano, l’altrettanto magistrale “Stillness”, scelta non a caso quale apripista di “Sulphur English”, che frequenta con la consueta classe i registri del folk e della canzone cantautorale all’inizio e poi va a spogliarsi di questa veste gentile, si arma e si irrobustisce, cavalcando una progressione implacabile.
Possono anche suonare pesantissimi e terribili, gli Inter Arma, ma non perdono né ariosità né gusto melodico, ricoprendo malmostose marce distruttive di assoli magnetici, emananti la passione verso un hard rock antico e sempre moderno nella sua imperturbabilità. L’arpeggiare gotico e il tono ferale in apertura di “Blood Of The Lupines” sono un altro segno della maestria compositiva dei ragazzi, propensi a inscenare brani scenografici, profondi, infinitamente particolareggiati; qui, da una nenia calda e malinconica si diparte una solenne poesia doom, direttamente imparentata con il materiale più dilatato e sospeso di Ahab, My Dying Bride ed Evoken. I grovigli di rabbia titanica e il loro srotolarsi in andamenti intricati, tormentati, in pericolosa ebollizione, rimangono un ambito assai frequentato dagli americani e ne sono splendida testimonianza le prove di resistenza ed energia della titletrack e “The Atavist’s Meridian”. Spunti prettamente blackened sludge si amalgamano a partiture death metal forgiate in riff degni dei maestri del genere, gli strumenti si rincorrono in un marasma febbrile, che non cede mai alla tentazione del caos o della stramberia fine a se stessa. Nel fragore assordante e nell’orgia di tempi compositi di queste due composizioni, armonie drammatiche persistono nel dare un tocco di raffinatezza, esaltando il potere emozionale di una musica che usa l’arma della violenza con intelligenza e trasporto.
Su un piano più terreno e comunque sempre mirabolante, non sono semplici esercizi di stile le due scorticanti tracce di apertura (“A Waxen Sea”-“Citadel”), una rappresentazione di come old-school death metal, cupezze alla Ulcerate e sludge soffocante possano portare a trame tanto brutali quanto architettonicamente perfette. Non sappiamo dirvi se sia meglio questo “Sulphur English” o i suoi immediati predecessori, quello che fa sempre più impressione è la costanza nel produrre musica così carica, versatile, svincolata da scenari consolidati se non quelli prodotti dagli stessi Inter Arma. Ormai imprescindibili per capire lo stato dell’arte del metal estremo.