6.5
- Band: IRON MAIDEN
- Durata: 01:08:03
- Disponibile dal: 05/09/2003
- Etichetta:
- EMI
Spotify:
Apple Music:
Lo avevamo tanto aspettato, e finalmente ecco tra le nostre mani il successore del tanto acclamato “Brave New World”, disco di rientro per la vergine di ferro dopo la sospiratissima reunion. Introdotto da un singolo apripista orrido come solo i Maiden a volte sanno fare (“The Angel And The Gambler” e “Can I Play With Madness?” docent) a nome “Wildest Dreams”, che ci presentava una band alle prese con un heavy rock di basso livello e poco incisivo, il nuovo disco si mostra a noi come un seguito, a livello sonoro, dell’ultimo album, ripresentando la stessa struttura per quanto riguarda gran parte delle song, le stesse sonorità epiche di “Brave New World” ed una scelta simile per quanto riguarda la produzione; scelta ultima, questa, che il sottoscritto trova abbastanza discutibile perché, oltre ad essere ormai andata via per sempre la distorsione dei bei tempi (ma d’altra parte è da “Fear Of The Dark” che gli Iron non hannouna produzione veramente degna di nota), tende a privilegiare la potenza alla qualità, impastando le tre chitarre e tra loro e nascondendo sovente la voce di Bruce e il drum-set di Nicko, cosa che nel precedente ed eccleso “Brave New World” non accadeva assolutamente, sebbene il suono non fosse quello dei vecchi tempi. Un altro punto a sfavore purtroppo deriva dall’esecuzione canora di Dickinson, che troppo spesso in quest’album fa visibilmente fatica a reggere i toni più alti, risultando in certi frangenti sicuramente più deprecabile che nei sin troppo bistrattati “No Prayer For The Dying” e “Fear Of The Dark”. Purtroppo nemmeno sulla qualità dei pezzi, in questo nuovo “Dance Of Death”, c’è da sperare molto: spesso si ha infatti la sensazione di trovarsi di fronte a degli outtake di “Brave New World”, che non hanno trovato posto in quel disco a causa della loro scarsa qualità; e così, se anche solo la title-track può meritare appena l’appellativo di ‘nuovo classico’ (grazie al suo andamento epicheggiante, memore della grandezza della recente “Blood Brothers” ed al suo straordinario break simil-folk che esplode poi in un’imperiosa cavalvata metallica), parecchi pezzi risultano solo ‘buoni’ o ‘discreti’: parlo di “Rainmaker” (che ricorda certe sonorità del Dickinson solista, in particolare “Accident Of Birth”), la successiva “No More Lies”, “Montségur” (dal vago flavour epico, che non riesce comunque a convincere pienamente), “Paschendale” (pezzo interessante nel suo andamento, ma eccessivamente tedioso nei suoi otto minuti e mezzo di durata) e “Age Of Innocence”(dall’ottimo refrain, forse la più riuscita dopo la title track). Arriviamo poi alle restanti “Gates Of Tomorrow”, “New Frontier”, “Face In The Sand” ed alla ballad acustica “Journeyman”, che spesso, troppo spesso, sanno di inutili filler messi lì per riempire la classica lunga durata di un disco sfornato da un gruppo che da qualche anno non si fa sentire e deve quindi dare ai propri fan più quantità che qualità (chi ha detto “Metallica”?). Restano i fatti: un disco che non convince certamente e, benché sembri ricalcare le stesse orme del precedente “Brave New World” per filo e per segno, non riesce a coinvolgere né ad emozionare come il grandioso disco sopracitato, risultando anche eccessivamente fiaccato da una produzione confusa e da un Dickinson poco in forma. Morale della favola: uno dei dischi meno riusciti di tutta la carriera della Vergine, appena sopra la sufficienza per qualità e sostanza, ma insufficiente per le aspettative scatenate da un gruppo come gli Iron Maiden che, dopo aver composto un capolavoro come “Brave New World”, al momento del ritorno sulla scena sembra di nuovo essere calato nella mestizia compositiva quasi sempre imperante negli ultimiquindici anni. Che “Dance Of Death” sia forse una metafora per indicare la fine?