9.0
- Band: IRON MAIDEN
- Durata: 00:38:50
- Disponibile dal: 02/02/1981
- Etichetta:
- EMI
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A solo un anno di distanza del fulminante esordio omonimo, gli Iron Maiden tornano sulle scene con un altro album carico di quella potenza primitiva ed energica che caratterizza i primi vagiti della band londinese. Una forza naturale, quasi grezza, figlia ancora delle strade dell’East End, dell’odore di sudore stagnato nei pub che venivano polverizzati a suon di concerti: tra gli ultimi brandelli di un mondo che gli Iron Maiden stavano per lasciare, “Killers” è il trampolino di lancio verso il successo planetario che avverrà solo l’anno successivo con “The Number Of The Beast” e con l’avvento di Bruce Dickinson, che sarà complice nel cambiamento di connotati della Vergine di Ferro. Il disco possiede l’estro del debutto, lo ripulisce appena, ne smussa gli angoli rifinendolo, mette una marcia in più nell’esecuzione delle canzoni e mantiene intatta l’attitudine heavy metal (e non punk) che fonda la band, e ne inizia a caratterizzare le linee epiche. Lavoro a volte relegato in fondo alle classifiche dei ‘magnifici sette’ degli Iron Maiden, “Killers” non colpisce allo stomaco come ciò che è uscito prima, e forse non aggredisce il cuore come quello che verrà dopo, ma in realtà è un capolavoro di autentico heavy metal, con un tiro travolgente, una musicalità un po’ più raffinata rispetto ad “Iron Maiden” (complice anche l’ingresso di Adrian Smith alla chitarra al posto di Dennis Stratton), senza andare a scapito dell’aggressività: merito di una scrittura fresca e vitale, e di pezzi che forse i Maiden stessi non hanno mai voluto ergere a simbolo totale, relegandoli, nella gran parte, ad un periodo storico ben definito, un’istantanea di uno stato di grazia perfetto e potente. Non li possiamo biasimare: pur da dickinsoniani convinti, anche noi riteniamo che le versioni migliori dei brani contenuti nei primi due album restino quelle con la voce del compianto Paul Di’Anno, e non c’è versione live di Bruce Dickinson che ci abbia mai fatto cambiare idea.
E se è vero che “Killers”, forse, non contiene tracce simbolo come una “Phantom Of The Opera” o una “Rime Of The Ancient Mariner”, è anche vero che al suo interno troviamo delle autentiche gemme grezze, autosufficienti, che se messe insieme in un concerto, oggi, potrebbero far saltare qualche dente in un attimo. Composizioni che vivono di una luce antica, come quelle fotografie degli anni ’90 trovate nei cassetti: perfette per la loro epoca, necessarie per ciò che è venuto poi, e capaci anche riascoltate oggi, dopo trent’anni di ascolti regolari (per chi scrive), di funzionare alla grande, lasciandoci sempre a bocca aperta.
Sin dal principio, con quella “The Ides Of March” presa in prestito (più o meno con grazia) ai Samson e alla loro “Thunderburst”, si intravede già una vena di epicità ben connotante il futuro della band. Il pezzo è una intro avvincente e breve, che apre le danze introducendo forse l’unico dei brani presenti poi nelle scalette della band con una certa regolarità, ovvero “Wrathchild”, aperto da un giro di basso iconico, una canzone rabbiosa, mordente, che nell’interpretazione di Di’Anno ha un certo qualcosa che non verrà replicato nemmeno nelle migliori prove di Dickinson — per tornare al discorso di qualche riga fa. Segue “Murders In The Rue Morgue”, ispirata ad Edgar Allan Poe, canzone molto londinese, evocante notti oscure e strade poco sicure, con un inizio maestoso e un assolo centrale esaltante come pochi altri. Anche questa, inspiegabilmente, sparirà dalle setlist dopo il “Beast On The Road Tour” del 1982, salvo qualche sporadica ripresa fino all’epico Early Days I del 2005, tour in cui la band suona unicamente brani dei primi quattro dischi (uno show fenomenale, come ricorderà chi era presente).
Ancora più trascurata la successiva “Another Life”, fortunatamente ripescata anch’essa per gli Early Days: un pezzo molto ‘Maiden prima epoca’, con quell’intro di batteria forse un po’ semplice ma a suo modo irresistibile, che apre a un ingresso chitarristico mutuato dal decennio precedente, per una composizione essenzialmente di metal classico. Certo che quel giretto dopo la strofa, con le due chitarre a sovrapporsi, fa esaltare ancora adesso.
Segue la strumentale “Genghis Khan”, che inizia con un incedere marziale emozionante ed epico — forse il brano più in linea con quello che sarà il futuro della band — e che si sviluppa su un giro veloce, semplice nella struttura, ma capace di regalare un godimento non da poco alle nostre orecchie. Dimostrazione d’epoca della capacità degli Iron Maiden di risultare efficace anche con una scrittura apparentemente lineare; un mantra che tornerà spesso negli anni. Andiamo a chiudere il lato A con un’altra traccia sulla scia di “Another Life”, ovvero “Innocent Exile”, un episodio heavy metal con un certo sapore hard rock. La strofa si regge su un riff che avrebbe potuto benissimo uscire dai Deep Purple qualche anno prima, e se la costruzione risulta un po’ ripetitiva, trova riscatto in un assolo finale davvero efficace, che culmina in una chiusura d’effetto.
Arriva il turno della title-track, forse la più vicina a essere uan canzone simbolo del disco (sebbene anch’essa relegata all’oblio già negli anni ’80): un’intro di basso e chitarre che cattura subito, con Paul Di’Anno che sembra giocare con gli strumenti come se fosse dal vivo. L’apertura verso la parte cantata è avvolgente, seguendo una struttura piuttosto regolare, arricchita da una bella sezione strumentale nel cuore del brano. Una pezzo da novanta che forse non ha trovato abbastanza spazio a causa delle bombe che sarebbero arrivate poco dopo.
Dopo tanta energia, gli Iron Maiden inseriscono una semi ballad sulla scia di quella “Strange World” contenuta nel disco precedente: va detto però che “Prodigal Son” è oggettivamente meno bella e sicuramente meno trasognata di quella, con un andamento che sembra datato anche per l’epoca. L’inizio lascia un po’ interdetti, si recupera sicuramente sulle strofe cantate ottimamente da Di’Anno e un buon momento solista tra le due chitarre, ma resta un episodio tutto sommato trascurabile nella discografia della band. Si alza di nuovo il ritmo con la successiva, micidiale, “Purgatory”, traccia velocissima e ispirata, tra le preferite di chi scrive: un riff apre il brano in solitaria, senza introduzioni, per dare il ‘la’ ad una fuga senza riposo che per tre minuti e venti fa incrociare le chitarre in armonie che si ficcano nel cervello e diventano impossibile dimenticare sino a quel giro che supporta il “Please, take me away” cantato da Di’Anno, dove le chitarre incrociate che sorreggono il brano si trovano invischiate su di una trama di basso clamorosa, generando uno dei momenti ‘alla Iron Maiden’ con cui si potranno descrivere queste sensazioni in futuro.
Siamo ormai alla fine (il disco dura poco meno di quaranta minuti, alla bella usanza di una volta), ma non prima di trovarci al cospetto di “Drifter”, canzone a cui i Maiden dell’epoca dovevano essere molto affezionati, avendo trovato spazio in quasi ogni scaletta fino a più o meno “Piece Of Mind”, per poi scomparire fino alla riesumazione del 2005. Il brano apre con un arpeggiare acido e apre ad un ingresso ‘Rock and roll’, per dirla con Paul, per un brano appunto più rock che metal, figlio ancora della gioventù di chi l’ha composta, con una struttura tutta stop e ripartenze, con un bel momento centrale ed un assolo finale molto festaiolo.
“Killers” è il disco degli Iron Maiden da riscoprire, non fortunatissimo nella sua collocazione, se lo si guarda retrospettivamente: non è il micidiale debutto tutto rabbia e intransigenza, né il suo successore, primo con il cantante leggendario che lancerà i Maiden nell’Olimpo dell’heavy metal. È un disco onesto, operaio, pieno di tracce in gran parte eccellenti, che guarda all’orizzonte sconfinato pur con i piedi ancora ben piantati davanti alle porte del pub di quartiere. Sono tutti bravi a farsi piacere “Powerslave”, ma “Killers” è il disco da irriducibili, dei die hard fan, dei black bloc del metallo tradizionale, un simbolo di questo genere musicale tanto quanto la sua copertina, che non perde smalto nemmeno dopo più di quarant’anni di esistenza. Uno di quei titoli che non possono non essere presenti nelle collezioni di un metallaro degno di questo nome.