9.0
- Band: IRON MAIDEN
- Durata: 00:45:25
- Disponibile dal: 16/05/1983
- Etichetta:
- EMI
Spotify non ancora disponibile
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Dal momento in cui è apparsa sul web la locandina del prossimo “The Future Past Tour”, è inevitabilmente iniziato il toto-scommesse relativo alla possibile scaletta che i Maiden andranno a presentare nel corso delle trentatré date previste, e alle condizioni meteo che caratterizzeranno in particolare la tappa italiana, in calendario per sabato 15 luglio 2023. Ora, tornando al manifesto, visti i numerosi indizi rappresentati, in aggiunta ad alcune avvisaglie oratorie già lanciate da Bruce Dickinson al termine del precedente “Legacy Of The Beast” (“We’ll see you… somewhere on tour” aveva annunciato in quel di Lisbona), è ormai assodato che gran parte dell’imminente setlist sarà composta da brani estratti dall’ultimo “Senjutsu” e, proprio, da “Somewhere In Time”. Attesa dunque per le varie “The Writing On The Wall”, “Stratego” e (magari) “Hell On Earth”; trepidante attesa per una possibile “Caught Somewhere In Time” e (sembra certa) “Alexander The Great”. Ad essi, come da prassi, si aggiungeranno le classiche hit immortali, inserite di default nell’elenco targato Vergine di Ferro. Ed è qui che troviamo uno dei pezzi, se non IL pezzo più rappresentativo di Harris e compagni; per la sua attitudine, per il suo sound, per il suo incedere, in grado di smuovere l’intera orda metallara presente ai vari show, facendola sventolare a destra e a manca come una bandiera; quella della Union Jack, quella di “The Trooper”. Un brano-simbolo inserito in un album altrettanto rilevante, fondamentale oseremmo dire, ma talvolta poco considerato rispetto agli altri che lo hanno preceduto o seguito, almeno fino a “Seventh Son Of A Seventh Son”, disco che, come vuole la ‘legge del maideniano medio’, ha segnato la fine della band britannica.
Oggi tuttavia, siamo qui per due motivi: il primo, di carattere puramente celebrativo, vuole festeggiare i quarant’anni dell’album in questione; il secondo intende rivendicarne l’importanza all’interno dell’intera carriera degli Iron. “Piece Of Mind”, infatti, non è solamente il quarto tassello della storia dei Maiden, ma è anche il primo passo di un percorso più evoluto, ricercato ed ispirato che maturerà con i successivi lavori. E’ un disco in grado di sostenere il peso del successo scaturito con “The Number Of The Beast”; è l’album in cui fa il suo esordio dietro le pelli mister Nicko McBrain, il quale darà un’impronta indelebile al reparto ritmico del gruppo inglese. E ancora, in “Piece Of Mind” Bruce Bruce diventa a tutti gli effetti Bruce Dickinson, acquisendo una maggiore personalità in fase interpretativa, diventando anche diretto protagonista in sede di scrittura dei brani (“Revelations”). Gli stessi pezzi si rivestono ancor di più di storia, mitologia e letteratura, aprendo quindi un nuovo capitolo creativo anche da questo punto di vista.
Ma non solo: facendo un rapido excursus attraverso altri pezzi da novanta a firma Maiden, sono veramente pochi gli album che possono vantare una cinquina d’apertura come quella presente in “Piece Of Mind” (o “Food For Thought”, come avrebbe dovuto chiamarsi inizialmente): lo stacco iniziale di “Where The Eagles Dare” è il perfetto biglietto da visita di McBrain; la magica e malinconica “Revelations” segna, come anticipato, il primo brano targato Dickinson; in “Flight Of Icarus” abbiamo l’ennesima dimostrazione delle capacità vocali dell’Air Red Siren; la sottovalutatissima “Die With Your Boots On”, caratterizzata da una seconda parte (dal minuto 3:00 per l’esattezza) semplicemente perfetta, deliziosamente costruita sugli inseguimenti e assoli di Dave ed Adrian, una cavalcata poderosa ad anticipare l’ennesimo acuto di Bruce; e poi c’è “The Trooper”, capace di buttarti a terra nel giro di tre-secondi-tre, eterna, roboante, perentoria. Prima parte che si conclude con il botto: venticinque minuti completi, esaustivi, utili a mostrare le molteplici varianti stilistiche di Harris e soci. Del resto, se diamo un occhio alla copertina di “Piece Of Mind”, anche il tratto in corsivo e più dolce del titolo stesso ci consegna un’anteprima della varietà di arrangiamenti contenuti nell’album.
Ripreso fiato dopo la galoppata delle giubbe rosse, è il famoso messaggio nascosto del buon Nicko ad aprire le danze della seconda metà del disco. In risposta ai benpensanti e a coloro che li avevano tacciati di essere degli adoratori del diavolo, i Maiden decidono di rimandare le accuse al mittente, riprendendo una frase dell’attore John Bird mentre imitava il generale e dittatore ugandese Idi Amin Dada. Un incipit ‘satanico’ adatto ad alzare il sipario sulla parte più oscura del full-length e che, negli anni, è stata spesso messa in discussione a causa di una certa debolezza d’impatto rispetto alla menzionata cinquina iniziale. Tante grazie, ci viene da dire: a trovarla, ripetiamo, una partenza d’album così! Precisato ciò, sia “Still Life”, in cui è rinchiuso il titolo stesso del disco, sia l’epica e anch’essa sottovalutata “Quest For Fire” (una delle preferite di chi scrive), sia “Sun And Steel” meritano di essere annoverate tra i pezzi degni di nota di “Piece Of Mind”. Se poi, infine, ci aggiungiamo la conclusiva “To Time A Land”, il gioco è fatto. Il brano che chiude l’album è infatti una delle cose migliori scritte da ‘Sua Perfezione’ Steve Harris, come da egli stesso confermato in un’intervista rilasciata all’epoca della pubblicazione del disco. Una traccia che, col senno di poi, ha sempre trovato troppo poco spazio in sede live.
Realizzato tra il Jersey, nella Francia nord-occidentale, le Bahamas e New York City, “Piece Of Mind” è di diritto uno dei masterpiece della Vergine di Ferro; e visto che i Maiden sono una band che, più di altre, è in grado di richiamare a sé generazioni variegate di metallari, ai borchiati della prima ora l’invito è quello di celebrare al meglio le sue quaranta candeline; ai giovani invece… l’ascolto è calorosamente consigliato!