9.0
- Band: IRON MAIDEN
- Durata: 00:40:22
- Disponibile dal: 11/10/1986
- Etichetta:
- EMI
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Già immaginiamo le facce scandalizzate di quanti si staranno chiedendo come mai, di tutti gli album dei Maiden, si sia deciso di trattare proprio questo, uno dei più controversi album della discografia “classica”. In effetti, l’aggiornamento del sound grazie all’uso di chitarre sintetizzate, all’epoca, fece storcere il naso ai puristi, ma d’altra parte avvicinò alla band anche una nuova frangia di pubblico. È opportuno però ricordare che la Vergine di Ferro non fu l’unica a cedere all’uso delle nuove tecnologie, giacché anche altre numerose realtà dell’epoca decisero modernizzare il sound. Steve Harris & Co. sono riusciti a trovare il giusto compromesso senza stravolgere drasticamente il proprio stile, a differenza dei tentativi coevi da parte dei Judas Priest (“Turbo”) e Ozzy Osbourne (“The Ultimate Sin”), invero troppo smaccatamente commerciali e a tratti imbarazzanti. Nei due anni precedenti il gruppo aveva raggiunto traguardi impressionanti, prima incidendo il mastodontico “Powerslave”, album che gli permise di intraprendere un tour faraonico, testimoniato sui solchi del vinile di “Live After Death”. I Nostri avrebbero potuto tranquillamente vivere di rendita proseguendo sulle medesime coordinate, ma anziché adagiarsi sugli allori, decisero di dare una svolta stilistica netta che li proiettasse nel futuro. Indubbiamente, si trattava di una mossa rischiosa che avrebbe potuto compromettere l’immagine della band, ed è opportuno rimarcare come curiosamente Dickinson non contribuisca alla stesura di alcun pezzo. Dalla futuristica front cover era lampante che qualcosa era cambiato: Eddie, dopo essere morto in “Powerslave” e risorto in “Live After Death”, viene trasposto in un ipotetico futuro sotto le sembianze di un minaccioso cyborg killer. Il nuovo sound, qui completamente ripulito e levigato dalla chitarre sintetizzate, irrompe in “Caught Somewhere In Time”, autentico tour de force dalle lievi tinteggiature progressive, la cui trama è arricchita nella parte centrale da un’esplosione di riff, cambi di tempo ed assoli eseguiti magistralmente dalla premiata ditta Murray/Smith. Primo singolo estratto dall’album, “Wasted Years” risalta le capacità compositive di Adrian Smith, firmando un episodio compassato ed adagiato su sonorità maggiormente accessibili, che strizzano l’occhio alle classifiche. Da sempre snobbata da una buona fetta di fan e criticata da una parte della stampa, “Sea Of Madness” è invece uno dei punti forti del disco. Brano dalla struttura anomala, sul quale primeggiano il martellante bass playing di Harris ed il preciso drumming di McBrain, nella sua parte centrale si snoda in un break chitarristico ad alto tasso melodico. Nonostante la varietà di tessuti ritmici di cui è composto il brano, l’ugola di Dickinson è puntuale nel donare le giuste sfumature all’arcobaleno sonoro del pezzo. Un raffinato fraseggio strumentale introduce la celebre “Heaven Can Wait”, che ritorna su binari stilistici più sontuosi, evidenziando ancora una volta l’eccezionale abilità di Dickinson nel calibrare le sue parti vocali all’interno di metriche particolarmente complesse che sfociano in uno dei ritornelli più accattivanti del disco. Una tenue introduzione dal forte sapore melodico ci conduce a “The Loneliness Of The Long Distance Runner”, episodio dotato di una struttura ritmica forsennata e assai veloce nella quale per una volta Nicko McBrain fa la parte del leone, sciorinando una serie di incastri tecnicamente complessi, ma eseguiti con precisione chirurgica. “Stranger In A Strange Land”, invece, rappresenta alla perfezione il nuovo percorso stilistico, grazie ad un wall of sound costruito su chitarre sintetizzate che definiscono un brano dotato di un’atmosfera dilatata e sognante. Una frase come “‘cause you know that you’ve heard it before” riassume alla perfezione il concetto espresso nella successiva “Déjà-Vu”, sorta di bigino di quanto i Maiden avevano ampiamente espresso nelle tracce precedenti del disco (vedi ad esempio la palese similitudine con “The Loneliness Of The Long Distance Runner”). La tensione sopita nel precedente episodio si risolleva decisamente con la finale “Alexander The Great”, inatteso salto nel passato alla riscoperta delle gesta del noto condottiero macedone: canzone dall’incedere marziale e ricca di pathos, tocca lo zenith nei lunghi break strumentali guidati dai guitar synth che riescono a creare molteplici e mutevoli scenari ben adatti ad illustrare l’eroica vicenda umana del grande Alessandro. Il disco ad oggi continua a mietere opinioni contrastanti, c’è chi lo definisce un capolavoro assoluto di composizioni policromatiche dotate di un sound cristallino, e chi lo ritiene nient’altro che un inutile esercizio di autoindulgenza cementato da sonorità datate. Per chi scrive “Somewhere In Time” non è nulla di meno che la sesta preziosa gemma incastonata nella corona degli indiscussi sovrani dell’heavy metal inglese.
Si ringrazia Diego “Dr.Zed” Zorloni per la fattiva collaborazione.