8.0
- Band: ISOLANT
- Durata: 00:27:24
- Disponibile dal: 24/02/2023
- Etichetta:
- Sentient Ruin
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Dante, e con lui gli illustratori che hanno cercato di trasporre in immagini le sue visioni, ci hanno trasmesso l’idea dell’inferno come un pozzo discendente, un vuoto colmato solo parzialmente dal dolore delle anime dannate. E se invece non fosse l’assenza, ma una densa stratificazione a definire il mondo dei morti?
Il dubbio ci viene dopo l’ascolto di “Drain”, disco d’esordio di un combo internazionale che si era affacciato solo con un demo quasi un decennio fa alle porte dell’Oltretomba, ora spalancate in maniera mirabile. E come sempre, quando parliamo di sonorità che vertono dalle parti dell’industrial più pesante e lavico, gli orrori evocati sono, anche e soprattutto, quelli della vita quotidiana nella società post-industriale. Ma veniamo alla musica: al fondatore Max Furst, responsabile di chitarre, basso e drum machine si uniscono in questo viaggio nelle spire del male il rumorista spagnolo M. Souto e Mattia Alagna; ci soffermiamo un attimo su quest’ultimo, non per campanilismo, ma per sottolineare come – già noto per i suoi progetti estremi e senza compromessi – a questo giro la nostra vecchia conoscenza mostri un’ulteriore evoluzione in termini vocali, con un approccio cupo, a tratti gorgogliante, atonale eppure estremamente variegato e funzionale allo scopo.
Scopo che abbiamo in qualche modo anticipato, ma che si declina nello specifico in un viaggio senza spiragli di luce né melodia sulle tracce dell’Inghilterra di metà anni Novanta, potremmo dire: Godflesh e Scorn in primis, non privo di tocchi grind. Spazio quindi ad accordature ribassate, che quando le chitarre cedono ad arpeggi, superano la soglia del disturbante (“The end Begins Me”); poi pattern di batteria ultraeffettati, sporchi ed eppure chirurgici, come bisturi arrugginiti usati in uno snuff movie girato all’interno di un’archeologia industriale. Ancora, dissonanze che spesso diventano la colonna portante del brano (“Drown In Ash”), oppure strumenti usati in chiave noise, quasi no wave, a seguire percorsi diversi, cacofonici nell’impostazione, ma perfettamente coesi nel risultato: dipingere distopie sonore. È il caso di “Death Pulse” oppure di “Inner Tomb”, quest’ultima particolarmente figlia di quell’onda lunga che ha attraversato l’atlantico a unire Throbbing Gristle, industrial, post-punk, giù fino agli Swans dei primi, tossicissimi album.
Un’onda che è diventata marea nera negli anni Ottanta, un periodo a cui ci sembra guardare particolarmente la conclusiva title-track; un pezzo che parte guidato da un basso angosciante, prima di aprirsi a reminiscenze goth e quasi mediorientali, mostrando ulteriormente la capacità di declinare il disagio in forme peculiari, ma coerenti. L’apice si tocca a metà percorso, giustamente il punto più difficile e impegnativo di questa scalata nello strazio profondo, con “Lamentation”. L’unico pezzo finora non citato, proprio per la sua particolarità: una traccia senza voce, in cui layer su layer di rumori sintetici assumono una loro improbabile e inquietante melodia, sferzata da colpi metallici a cadenza ultradoom, in una riuscita rivisitazione di Merzbow o di certe intuizioni della gloriosa Cold Meat.
Se l’abbondanza di riferimenti e suggestioni vi spaventa, vi tranquillizziamo subito: agli Isolant non serve nemmeno mezz’ora per trascinarci in questo gorgo senza speranza; un tempo quasi incredibile se si pensa a come si esce esausti e provati emotivamente dall’ascolto, ma – con i dovuti paragoni – per fortuna la lezione di dischi come “Reign In Blood” o “Legion” fa ancora scuola per qualche band.