7.5
- Band: ISOLE
- Durata: 00:48:29
- Disponibile dal: 23/08/2019
- Etichetta:
- Hammerheart Records
- Distributore: Audioglobe
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Diventa sempre più corposa e significativa la discografia degli Isole. Consolidato il proprio denso suono epic doom, dalle striature gotiche e viking, con l’eccellente “The Calm Hunter”, i metaller svedesi hanno impiegato quasi cinque anni per dargli un successore. Riuscendo infine a sfornare un seguito di valore, dove si riprendono gli stilemi così ben andati a memoria con le pubblicazioni passate e le si filtrano seconda nuove tinteggiature di amarezza, pessimismo e disillusione. Nel titolo si percepisce l’ansia, comune a molti, per il senso di disfacimento e dissoluzione che pare inesorabilmente attanagliare il nostro mondo. I colori cupi e l’angoscia comunicati dall’artwork si trasferiscono alla musica senza intaccarne l’identità, dando piuttosto un’ulteriore spinta alla band perché si concentri su partiture drammatiche, crepuscolari, chiuse in una deprimente tristezza.
“Written In The Sand” si protrae allora lenta e uggiosa, le chitarre ricamano melodie ampie ed eleganti, mentre la voce di Daniel Bryntse declama nel suo incantevole pulito, non facendo nulla per nascondere un sentimento di struggimento palpabile e toccante. I tempi tendono a instradarci in un calmo cammino di espiazione, ma non si rimane preda dell’immobilismo: le transizioni fra ritmi ora tremendamente decadenti e altri più sostenuti, che segnalano ancora tangibilmente l’influenza bathoryana, avvengono con naturalezza e mettono in mostra l’intatto vigore della formazione. Il crescendo di “The Beholder”, iscritto in pura roccia doom, è qui a dirci quanto forte batta il cuore dei musicisti svedesi, che anche ricorrendo a partiture quadrate, intransigenti e poco evolute, sanno emozionare l’ascoltatore. È un metal che chiede respiro al chitarrismo vecchia scuola, distillante intrecci sinistri come arpeggiati soffusi, riff muscolari e diluizioni indolenti, assoli trascinanti oppure carichi di morte. I rintocchi sepolcrali in apertura di “You Went Away” restano nella mente facilmente, presagio a una canzone simile al materiale più cupo di “The Calm Hunter”, quando scavando nel torbido e nel buio si andavano a toccare i My Dying Bride più melodici. Una congettura avvalorata dalla ricerca delle note basse da parte di Bryntse, cantore di valore che ha nel tempo ampliato il suo registro espressivo, arrivando come in questo caso a qualche sortita nel growl, dando però il meglio di sè soprattutto quando deve trasmettere sospirante malinconia.
I riff si ritorcono su se stessi, si chiudono e rilasciano in arie inquiete, dando fin dai primi secondi un’impronta greve come quella dei lunghissimi inverni nordici: forse nessun altro brano di “Dystopia” come “Forged By Fear” può indurre questa impressione, cantilenante e impenetrabile nelle sue brume, sfiancata da chitarre crepitanti catastrofe e linee vocali afflitte, incorniciate nella seconda parte da stupendi assoli classic metal, preludio a una luminosa accelerazione, rara in questo disco. L’apertura a toni elegiaci lascia, giunti a questo punto, gradevolmente meravigliati, ma non c’è da stupirsene più di tanto, perché gli Isole hanno nelle corde sonorità distese e rasserenanti, utilizzate soltanto in misura minore a quelle tenebrose. Il gruppo, come ulteriormente dimostrato durante l’esperimento in svedese “Galenskapens Land”, non ha interesse a creare canzoni di facile richiamo, rinunciando a inserire veri e propri chorus, per concentrarsi su un’atmosfera fosca e dettagliata, non inutilmente scenografica, carica di orpelli: la negatività deve entrare sotto pelle e far pensare, a lungo, senza fretta. Le lunghe melodie, gli spazi ampi in cui le chitarre si espandono attraverso coloriture cangianti, stando bene attente a non toccare tinte troppo vivaci, affrescano con buon gusto un mondo ormai buio e arido, senza indulgere in eccessiva crudezza né disperazione. Un’opera di una certa pesantezza, “Dystopia”, heavy ed asfittica, che trasuda qualità e valore e ha solo come difetto, per chi scrive, una certa mancanza di respiro, che fa sembrare lievemente più lunghi di quel che dovrebbero alcuni episodi. Non siamo lontani da “The Calm Hunter”, che aveva dalla sua un equilibrio e uno slancio maggiori di “Dystopia”; l’ultimo disco è nella sua scia e, se si ama soprattutto il lato più lento e ridondante degli Isole, potrebbe pure diventare il vostro album preferito nella loro discografia.