
7.0
- Band: JETHRO TULL
- Durata: 00:50:29
- Disponibile dal: 07/03/2025
- Etichetta:
- Inside Out
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Anche Ian Anderson, come molti illustri colleghi (quasi) ottuagenari, sembra essere entrato in una sorta di frenesia artistica, che l’ha portato a pubblicare ben tre album in quattro anni. “The Zealot Gene” (2022) e “RökFlöte” (2023) ci avevano restituito una nuova versione dei Jethro Tull, trasformati ormai nella band solista di Anderson, con uno stile e una personalità che vedono, ovviamente, il leader al centro assoluto della scena, con il resto della band a svolgere un ruolo di poco superiore a quello di un manipolo di turnisti di buon livello.
Non si allontana da questa formula anche “Curious Ruminant” che, anzi, estremizza ulteriormente questo concetto, evidenziando in maniera ancora più netta ed inequivocabile il nuovo ruolo cantautorale di Anderson. Il nuovo disco dei Tull non è certamente un disco heavy/rock e, a conti fatti, non è nemmeno un album prog: quello che abbiamo ascoltato è piuttosto un buon esempio di folk, con una forte componente introspettiva ed una particolare attenzioni ai testi. Cantautorato, appunto. Certo, c’è il leggendario flauto traverso di Ian che imperversa per tutti i cinquanta minuti di durata, ma è evidente come l’approccio del cantante sia sempre più legato al minimalismo.
Ian Anderson ha composto l’intero album solo con il supporto della sezione ritmica (suo figlio James Duncan alla batteria e David Goodier al basso) e del tastierista John O’Hara, che resta nelle retrovie, abbellendo le composizioni giusto con fisarmonica e pianoforte. Questo assetto si riflette anche nelle canzoni, che prediligono sonorità acustiche, a discapito della chitarra elettrica. Il chitarrista che avevamo ascoltato in “RökFlöte”, Joe Parrish-James, non fa più parte della band ed il nuovo arrivato, Jack Clark, non ha partecipato in maniera attiva alla scrittura, limitandosi quindi a pochi interventi elettrici, tutt’altro che entusiasmanti.
Delineato il campo d’azione in cui operano oggi i Jethro Tull, il risultato finale funziona bene e continuiamo a ritenere saggia la scelta di Anderson di non volersi trasformare nella macchietta del rocker che fu, scegliendo invece sonorità e tematiche più vicine alla vita di una persona di settantasette anni. Canzoni come “Puppet And Puppet Master” o “Savannah Of Paddington Green” rappresentano bene le scelte stilistiche descritte, un misto di quiete, introspezione ed arrangiamenti bucolici.
Ci sono episodi più ritmati, come “The Tipu House”, ma anche in questo caso a guidare la melodia è la fisarmonica di O’Hara, restando sempre in un contesto folk rock.
Un po’ deludente, invece “Drink From The Same Well”, un brano di diciassette minuti che, sulla carta, sembrava strizzare l’occhio alle grandi suite del passato, come “Thick As A Brick”, oppure “A Passion Play”. In realtà, quello che abbiamo ascoltato è piuttosto un collage di composizioni indipendenti che si susseguono, senza una vera e propria struttura unitaria: i primi cinque minuti sono puramente strumentali, con il flauto in bella vista, dopodiché la musica si ferma, quasi come se si passasse alla traccia successiva, per riprendere poi con una sezione diversa, ancora strumentale, una parte cantata, e poi di nuovo uno stacco che ci porta alla coda conclusiva. Il dialogo strumentale è sempre al minimo e la sensazione che ci resta è che si tratti di composizioni separate che poi il cantante ha voluto unire in una traccia unica.
Poetica e delicata, invece, la chiusura con i due minuti di “Interim Sleep”, un recitativo con un delicato e minimale accompagnamento musicale, in cui Ian riflette sulla morte e sull’aldilà.
Un’ultima nota doverosa, infine, va dedicata alla vocalità di Ian Anderson, da anni ormai il vero tallone d’Achille delle performance dei Tull. E’ chiaro che da questo punto di vista ormai sia impensabile ipotizzare dei miglioramenti, se non intervenendo in maniera massiccia in studio con i trucchi che la tecnologia è in grado di offrire. Anderson non sceglie, fortunatamente, questa strada, considerata la sua ancora florida attività dal vivo, e opta per linee vocali davvero basilari, giocate tutte nel registro medio-basso, per non mettere in sofferenza le sue corde vocali affaticate.
“Curious Ruminant”, insomma, porta avanti coerentemente il percorso iniziato con “The Zealot Gene”, con tutti i pro e i contro del caso. Se gli scorsi episodi vi hanno convinto, anche questo capitolo troverà il vostro favore, mentre chi cerca atmosfere sensazioni simili a quelle dei grandi capolavori del passato, dovrebbe semplicemente arrendersi alla realtà dei fatti ed, eventualmente, cercare altrove nuovi stimoli musicali.