7.0
- Band: JETHRO TULL
- Durata: 00:44:47
- Disponibile dal: 21/04/2023
- Etichetta:
- Inside Out
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Ian Anderson è nato in Scozia, ma il suo cognome ha una radice scandinava, che troviamo in varie forme (Andersson o Andersen, ad esempio), e questo, come racconta lui stesso, l’ha sempre incuriosito, tanto da voler dedicare oggi un intero album alla mitologia norrena, con un approccio filologico e storiografico fatto di ricerche, letteratura e testi antichi. Quando abbiamo saputo che “RökFlöte” sarebbe stato un viaggio nei miti e nelle leggende degli Asi, ci siamo sentiti un po’ a casa, perchè, ammettiamolo, se c’è un genere che ha pescato a piene mani in questo folklore, quello è proprio il metal: pagan, black, folk, power, epic, heavy, doom… abbiamo ascoltato le gesta di dèi, eroi e mostri leggendari in mille modi diversi ed eravamo molto curiosi di vedere come queste storie sarebbero state declinate da un signore ultrasettantenne entrato di diritto nella Storia del prog rock (e non solo). “RökFlöte”, da questo punto di vista, raggiunge l’obiettivo solo in parte: il nuovo album dei Tull, infatti, non cerca di emulare le atmosfere che siamo soliti accostare a queste leggende, ma si limita a dare vita al diretto successore di “The Zealot Gene”. Ed è un peccato, perchè nei pochi episodi in cui il buon Ian prova ad esplorare quel mondo, il risultato è ottimo: prendiamo ad esempio la danza maliziosa di “The Trickster (And The Mistletoe)”, la malinconica delicatezza di “Cornucopia”, o la meravigliosa introduzione fiabesca di “Guardian’s Watch”, che sembra davvero trasportarci in un altro luogo e in un altro tempo.
Nella maggior parte dei brani, invece, a partire dal singolo “Ginnungagap”, Ian Anderson ci propone esattamente ciò che sono i Jethro Tull di oggi, ovvero un progetto solista, cantautorale, in cui la band si limita a fornire degli arrangiamenti elettrici di base, o delicate orchestrazioni a cura di John O’Hara, che ruotano comunque intorno allo stesso Anderson. Come avevamo già sottolineato recensendo il precedente album, l’esempio perfetto di tutto questo sono le chitarre, sempre in secondo piano e poco incisive. All’epoca avevamo ipotizzato che questo potesse essere causato da un minore coinvolgimento di Florian Opahle, che infatti ha lasciato la band nel 2020, ma anche l’arrivo del giovane Joe Parrish-James, classe 1995, cresciuto a pane e Iron Maiden, non ha affatto risolto questa situazione, che appare quindi una evidente scelta stilistica e non una contingenza data dal caso. In “RökFlöte”, insomma, c’è davvero poco Rök… E il Flöte, il flauto? Quello c’è, eccome, ed è sempre eccelso, uscendone addirittura valorizzato rispetto a quanto ascoltato in “The Zealot Gene”. Non è un caso, d’altra parte, se consideriamo che l’album inizialmente era stato pensato proprio come lavoro strumentale, giocato tutto sul flauto, e siamo quasi dispiaciuti (quasi?) che alla fine questa idea sia stata accantonata.
Ancora una volta, dunque, diventa inutile un paragone con il passato: i Jethro Tull del 2023 non hanno nulla a che vedere con la band che ha registrato “Aqualung”, “Thick As A Brick”, “A Passion Play”, ma ha poco da spartire anche con gli ultimi veri Jethro Tull, quelli di “The Christmas Album”, l’ultimo disco con Martin Barre alla chitarra. Oggi Ian Anderson è un pacato signore che ama la filosofia, la letteratura, la mitologia e vuole raccontarci le sue storie con una voce ormai affaticata, il suo flauto magico e poco altro. Che questo sia poco o tanto, alla soglia dei settantasei anni, lo lasciamo alla valutazione dei lettori. Certo che, a pensarci ancora, quanto ci sarebbe piaciuto ascoltare quel disco strumentale che non vedrà mai la luce…