7.5
- Band: JOB FOR A COWBOY
- Durata: 00:30:49
- Disponibile dal: 21/05/2007
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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Questo mese una fra le band di spicco della scena death-core ha voluto ribadire la sua supremazia in tale campo (stiamo parlando dei Despised Icon del nuovo “The Ills Of Modern Man”), mentre un nome altrettanto celebrato ha invece deciso di imboccare una strada del tutto diversa, con la chiara intenzione di prendere le distanze da quelle sonorità per le quali era diventata celebre in passato. Forse stanchi di far parte di una scena in via di saturazione e desiderosi di mettere finalmente in mostra tutta la loro tecnica e le influenze musicali a loro più care, i Job For A Cowboy, sul loro attesissimo debut album, hanno infatti optato per una sterzata verso lidi 100% death metal. Per intenderci, il quintetto statunitense ha messo da parte quei comunque pochi breakdown metal-core che erano presenti nell’EP “Doom”, ha dato un taglio alle linee vocali da suino sgozzato e ha snellito le strutture dei brani. Al posto di tutti questi elementi sono quindi subentrati un riffing più agile, affilato e tecnico, un growling più comprensibile e ritmiche decisamente più veloci e curate. Il risultato finale è un disco, “Genesis”, in cui – con le più che dovute proporzioni – praticamente tutto induce a far pensare ai Job For A Cowboy come alla nuova risposta americana a formazioni europee del calibro di Decapitated (di “The Negation”), Aeon e Spawn Of Possession. L’influenza di queste band è palese nel riffing, nelle atmosfere e negli spunti melodici, ma va anche sottolineato come quest’ultima non risulti fastidiosa in alcuna occasione. Nonostante il contesto sia meno cervellotico, i cinque ragazzi dell’Arizona si confermano infatti dei songwriter ispirati e dalle idee molto chiare… bravi soprattutto a trovare un giusto equilibrio fra sezioni tecniche, momenti di pura aggressione e aperture melodiche. Soprattutto queste ultime sorprendono positivamente: su “Doom” erano quasi assenti, mentre oggi il gruppo – facendo uso di tastiere e di un ritornello ossessivo – in un brano come “The Divine Falsehood” riesce persino a ricordare gli Hypocrisy. In sostanza, l’unico aspetto di “Genesis” che stenta un po’ a convincere è la sua durata: l’album dura mezz’ora, ma nella tracklist compaiono due intermezzi (“Upheaval” e “Blasphemy”) che offrono soltanto qualche tastiera e vari rumori. Inutile sottolineare che avremmo preferito di gran lunga ascoltare due pezzi veri e propri al loro posto. Per il resto, tuttavia, nulla da obiettare… produzione notevole (Andy Sneap al mixaggio), artwork splendido e, soprattutto, parecchi ottimi brani. Una maturazione sensibile e per certi versi inaspettata: d’ora in avanti, terremo seriamente d’occhio questi ragazzi!