6.5
- Band: JOHN GARCIA
- Durata: 39:40
- Disponibile dal: 27/01/2016
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
Circa tre anni dopo il primo lavoro solista il crooner più significativo del deserto torna sul mercato discografico con una nuova fatica, che era lì a covare da diverso tempo: “The Coyote Who Spoke In Tongues”. L’album è un progetto acustico che comprende alle chitarre Ehren Groban (War Drum), il bassista Mike Pygmie (Mondo Generator, You Know Who) e il percussionista Greg Saenz (The Dwarves, You Know Who), una bella compagnia per una jam intorno ad un fuoco scoppiettante quando inizia a far buio nel Mojave. Non tutti i brani inediti contenuti riescono ad essere riusciti, come l’iniziale “Kyle”, ad esempio, cui spetta il compito di introdurre il mood soffuso e in qualche modo strizzante l’occhio ad una certa moda contemporanea di acoustic rock tornata in auge, corredando il tutto anche con un video ammiccante ad una generazione che ha forse ora poco a che fare con le tonalità fuzzose degli Orange del Mojave anni Novanta. Un po’ deludente risulta”Give Me 250ML”, presentata da un lyric video che ne presenta le debolezze più amplificate di un songwriting un po’ scialbo, come ultimamente si era stati portati a considerare negli ultimi lavori solisti e coi Vista Chino, rispetto a progetti come – senza tirare in ballo i Kyuss – Unida, Hermano e Slo-Burn. Con “The Hollingsworth Session” però abbiamo a che fare invece con un brano acustico ben oliato e funzionante, non scontato e decisamente catchy, in cui ricordiamo perché il buon Garcia ci era entrato nel cuore, anche quando si allontana dai Kyuss e si avvicina più alle tonalità più proprie degli Unida, con i propri saliscendi timbrici che più avevano contraddistinto il suo estro. Tassello fondamentale, e probabilmente ago della bilancia che pende verso il maggiore interesse di questo nuovo lavoro di Garcia, sono le versioni acustiche dei brani che han fatto la storia dei Kyuss: “Green Machine”, “Space Cadet”, “Gardenia” e “El Rodeo”. Una scelta strategica, e forse anche azzardata, per dei brani che, a parte il secondo di questi, risultano ormai inscindibili dalla loro dimensione originale. Qui, però, il lavoro di Garcia e soci riesce a farci tornare voglia di assaporare di nuovo un suo lavoro quasi con la stessa esaltazione del passato, seguendo queste note così familiari, ma in una veste del tutto nuova. “Gardenia”, in particolare, riesce a donare qualità che la versione originale non aveva probabilmente mai pensato di comunicare in quell’ormai lontano “Welcome To The Sky Valley”. E lo fa in un modo che funziona perfettamente. Chiude l’album una quasi ripresa di “Argleben” del precedente lavoro solista e una chiusa strumentale (pregevole, ma quasi buttata li) chiamata “Court Order”. Il sentore finale dell’album è quello, oltre al costante intrigo di sentire Garcia che torna a crooneggiare con le sue tonalità ormai fondamentali per ogni aficionado alla musica del deserto, di un leggero piacere che sfuma d’interesse dopo qualche ascolto e che rimane solamente nel ripescare talvolta in una playlist alcune versioni nuove di capolavori immortali targati Kyuss.