7.5
- Band: JUDAS PRIEST
- Durata: 01:10:40
- Disponibile dal: 31/07/2001
- Etichetta:
- Steamhammer Records
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Quello che diventerà a tutti gli effetti l’ultima prova con Tim ‘Ripper’ Owens era ed è un’opera controversa: se nel corso degli anni “Jugulator” ha acquisito addirittura la fama di ‘classico’, da molti interpretato come un lavoro di alto profilo e tra i momenti migliori dell’heavy metal anni ’90, il suo successore non possiamo dire abbia avuto né all’epoca, né ai posteri, la stessa fortuna. Pur riprendendo una parte delle sonorità di “Jugulator”, “Demolition” manca l’aggancio per vari motivi ai cuori degli appassionati, sia che si tratti di puristi del verbo halfordiano, sia di fan di maggiore apertura e piacevolmente convinti dall’operato di Owens. Paradossalmente, ci troviamo di fronte a un disco meno estremo concettualmente di quanto non fosse il disco del ’97: meno violenza generalizzata, dissimulata in parte la compressione chitarristica, controbilanciata da una presenza ben più costante di richiami alle ere passate dei Judas Priest, pur non andando propriamente indietro nel tempo come approccio, anzi. Risentito a distanza di tempo, dà l’idea di un album coraggioso, a suo modo sperimentale, proteso in avanti come d’altronde è sempre stata la carriera priestiana, almeno fino a quel punto. Perché se col ritorno di Rob Halford in formazione, al netto dell’esperienza “Nostradamus”, la band diventerà confortevolmente stabile nella riproposizione di forme heavy metal piuttosto rassicuranti, “Demolition” batte tutt’altre strade. Uno dei suoi punti a sfavore è probabilmente proprio quello di voler mettere tantissima carne al fuoco, proponendo ben tredici tracce, dal valore non costante e contenenti un po’ di tutto.
Ci si sente di affermare che nel corso della tracklist compaiano sia canzoni di notevole caratura, purtroppo mai sentite dal vivo, fatta esclusione per il tour di supporto all’album, alcune idee un po’ ‘brutali’, nel modo in cui cozzano contro l’immaginario priestiano (ma non di rado apprezzabili), altre più insipide; fortunatamente, queste ultime sono la minoranza. Da dove vale la pena di cominciare? Ovviamente dalla massacrante opener, una “Machine Man” che, se riuscite a immaginare in una veste sonora meno tecnologica – davvero ipermoderna la produzione, ritroverete accanto ad altre tirate micidiali del gruppo ben più famose. Che ‘Ripper’ non sia mai stato un problema sul piano interpretativo nella sua breve parentesi lo si capisce nel giro di una manciata di pezzi; la capacità di mettersi i panni dello screamer, come di giocare efficacemente su registri melodici quieti, oppure di aggredire come il killer al quale è dedicato il suo soprannome, è all’altezza di quella di “Jugulator” e in questo caso può permettersi linee vocali ancora più variegate. Uno dei cavalli di battaglia ai tempi fu la traccia numero due, “One On One”, testimone del groove killer posseduto all’epoca dai britannici. Difficile che quelle ritmiche cafone non siano rimaste almeno come déjà-vu nella testa di chi la conosce, il suo fare incalzante e strafottente, il suo essere un riottoso pachiderma incollerito, le avevano fatto giustamente guadagnare un posto stabile in setlist.
Da qui il ‘Priest-pensiero’ comincia a prendere pieghe atmosferiche, oppure si calca la mano con la brutalità e piccoli esperimenti. Sul primo fronte, sono efficaci le acustiche di “Hell Is Home” e la sua relativa cupezza, mentre si fanno ascoltare ma non incidono più di tanto le soffici “Close To You” e la piatta “Lost And Found”. Meglio osare allora, con la teatralità kitsch di “Jekyll And Hide” e i suoi vistosi sintetizzatori, oppure la foga di “Bloodsuckers”, canzone killer, tra le più riuscite del disco. Segnalata come unico inciampo pesante la noiosa e ripetitiva “Devil Digger”, ci si lancia in un finale di tracklist ricco di eclettismo. I chiaroscuri e le velature sci-fi si mescolano a un intimismo dall’interpretazione non scontata durante “In Between”, dove finalmente il bilanciamento acustico-elettrico trova una sua piena riuscita e Owens sfoggia un’interpretazione eccellente. Ancora groove a mitraglia e un pezzo incendiario, con ‘Ripper’ di nuovo a ergersi protagonista, è “Feed On Me”, altra iniezione di adrenalina che nei primi 2000 si permetteva di entrare con giusta ragione nelle scalette dei concerti.
“Demolition” si permette addirittura qualche infiltrazione elettronica, ed è proprio nella coda dell’album che la band rompe ogni indugio in questo senso. Lo fa dapprima con la panterizzata, massiccia “Subterfuge”, serie di cazzottoni che sfrutta appieno i toni digrignanti della voce di Owens; quindi con gli spazi più dilatati e comunque pressanti di “Cyberface”. Chissà dove sarebbero andati a parare, i Judas Priest, se non gli fosse venuto in testa di riportare Halford all’ovile: nonostante fossero già in età matura, i musicisti inglesi se ne potevano appunto uscire con soluzioni mai provate prima, affiancandosi a coloro che in quel periodo suonavano ‘moderni’ e ‘di tendenza’, ma proponendo comunque la propria personalissima visione delle cose. A chiudere, un altro brano caduto nel dimenticatoio, e non lo avrebbe meritato: “Metal Messiah” erutta epica fantascientifica, è un inno al metal che non si coccola nelle sue certezze e prorompe nel futuro. Un cantato quasi rappato in apertura traghetta verso un bridge vibrante e quindi un refrain classicissimo e memorabile, purtroppo incapace di accendere chissà quali entusiasmi in una fanbase scettica su quella piega sonora. “Demolition” diventerà presto qualcosa da nascondere e occultare, in nome del ritorno del venerato Metal God in line-up e la ripresa di un discorso orientato a ben altri suoni. Non va comunque né dileggiato, né considerato qualcosa da buttare al macero: c’è molta qualità al suo interno e merita una riscoperta.