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- Band: JUDAS PRIEST
- Durata:
- Disponibile dal: //2001
Aspettatissimo. Senza troppi giri di parole tutti sanno che “Demolition” può tranquillamente segnare la fine dei Judas Priest, come decretarne la rinascita artistica.
Perchè?
Perchè “Jugulator” era chiaramente un album di transizione, un prodotto buttato fuori con rabbia, magari eccessiva, che sulla lunga distanza tendeva a diventare noiosetto. Poi c’era il buon Tim che ancora doveva prendere posto, ambientarsi, nel pezzo di storia del rock in cui era stato catapultato dalla mattina alla sera.
Ecco perchè “Demolition” deve dare una conferma, deve scrivere in lettere maiuscole che i giurassici, fuori moda, anziani Judas Priest sono di nuovo on the road. E lo fa?
Per i molti che aspettano impazienti la risposta, sia che si tratti di fans un po’ delusi dal precedente lavoro, sia di detrattori pronti a speculare per mesi sull’eventuale passo falso dei cinque inglesi, non posso che emettere un verdetto quasi del tutto positivo.
Sono tornati, sono maturi, consapevoli, furbi in certe scelte, sicuramente orgogliosi senza essere nostalgici per la leggenda che li segue ovunque vadano.
Non è facile recensire un disco dei Judas con il distacco professionale con cui si giudicano gli album di band minori o emergenti che, con tutta probabilità, fra dieci anni si ricorderanno in pochi. Perchè se io sto qui a scrivere di gruppi METAL, siano i Nevermore o i My Dying Bride o addirittura i Deftones, lo devo ai Judas Priest e a pochi altri, forse i Black Sabbath; in parole povere i musicisti che hanno tirato fuori dal cilindro “the whole thing” molti anni fa. E poi c’è la devozione del fan, lo ammetto, il fan che quando ha incontrato Tim “Ripper” Owens voleva prostrarsi ai suoi piedi. Fatta questa più che doverosa promessa scendo nella sofferta descrizione tecnico-musicale di “Demolition”.
E’ un disco pesante, non quanto il suo predecessore, del quale smussa certi angoli, ma ne conserva il gusto (più o meno condivisibile) per il mid-tempo. E’ pesante, è anche moderno, lo è semplicemente perchè è una onesta trasposizione nell’anno 2001 di tutto ciò che il nome Judas Priest significa. In parte è “classico”, perchè, a partire dal drum solo iniziale che cita “Painkiller”, in tutto il lavoro si scorgono una serie di richiami ai “vecchi Judas”, spesso a quelli seminali dei ’70, con la loro vena sperimentale in bella vista, scoperta ed orgogliosa. C’è una varietà di suoni di chitarra incredibile, molti rasentano il geniale, molti, addirittura, scomodano l’industrial.
E poi c’è LUI. Ripper.
E’ superlativo, la sua prova vocale è da applauso ad ogni nota, tecnicamente pari ad Halford, se non superiore, si produce canzone per canzone in un ventaglio di sfumature e di chiaroscuri davvero emozionanti. La sua voce è toccante quando sfiora i toni bassi, è incisiva quando si cimenta in acuti impensabili, è sorprendente quando viene modellata per far diventare realmente vincente un pezzo. Non assegno il massimo dei voti per un paio di mid-tempos non proprio riuscitissimi, ma “Demolition” è la prova che i Judas Priest sono sempre i “metal gods”, in testa a tanti bambini, davanti a ogni imitatore.