8.0
- Band: JUDAS PRIEST
- Durata: 00:58:10
- Disponibile dal: 09/03/2018
- Etichetta:
- Epic
- Distributore: Sony
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Ebbene sì, il momento di parlare del nuovo lavoro dei Judas Priest è finalmente giunto! Chi vi scrive non può che sentirsi onorato per questa opportunità, anche se non è certo un compito facile approcciarsi a parlare del diciannovesimo album in studio della band che, insieme a poche altre, è stata in grado a suo tempo di definire i canoni di tutto ciò che oggi si può anche solo parzialmente definire ‘heavy metal’. Chi segue abitualmente le notizie riguardanti la storica band di Birmingham sarà senz’altro informato delle condizioni di salute precarie dell’iconico chitarrista Glenn Tipton, affetto da tempo da morbo di Parkinson e per questo impossibilitato a intraprendere il tour che si svolgerà nei prossimi mesi. A seguito di ciò non si sono fatte attendere le affermazioni di parte del pubblico secondo i quali i Judas Priest, tenendo conto anche dell’uscita dalla band del collega axeman K.K. Downing, si sarebbero probabilmente dovuti sciogliere dopo l’Epitaph Tour come da programma, in modo da lasciare così un ricordo migliore della propria carriera. Come sappiamo tutti, la storia ha invece preso una piega differente, tant’è che ormai tre anni fa la band ha pensato di immettere sul mercato un controverso album dal titolo “Redeemer Of Souls”, accolto abbastanza freddamente da critica e fan (anche se comunque non mancavano alcune idee potenzialmente vincenti) perché ritenuto un lavoro relativamente stanco e poco incisivo, assolutamente non in grado di rendere giustizia ai grandi fasti del passato. Oggi la band ha deciso di provare nuovamente a dare una scarica di potenza metallica e fiammeggiante al panorama con un nuovo album intitolato per l’appunto “Firepower” (di cui il mese scorso vi abbiamo dato un’anteprima) che, oltre a riproporre la loro famosa aquila metallica nell’artwork a cura di Claudio Bergamin, già dalla prima omonima traccia vuole rendere chiaro che qui siamo su tutt’altro livello rispetto a quanto visto qualche anno fa: un pezzo micidiale caratterizzato da un guitar work magari non particolarmente originale, ma dannatamente tagliente e d’effetto, abbinato ovviamente alla voce di un Rob Halford in grande spolvero e evidentemente più performante rispetto a ciò che ci si potrebbe aspettare; ottima sin da subito anche la produzione, e non c’è da stupirsi potendo vantare la collaborazione di due fenomeni dell’old school e del moderno come Tom Allom e Andy Sneap. “Lightning Strike” e “Evil Never Dies” confermano le buone impressioni iniziali, trattandosi di due brani assolutamente in linea con quanto ci si aspetterebbe da dei mostri sacri di questo calibro, la prima con quell’incedere alla “Hell Patrol” e la seconda con quelle soluzioni quasi di matrice thrash e persino hard rock per certi versi. Con “Never the Heroes” diminuisce leggermente l’adrenalina ma si mantiene discretamente elevata l’esaltazione, grazie anche a numerosi richiami ad alcuni loro illustri colleghi come ad esempio i teutonici Accept, il cui stile compositivo si percepisce in ogni singola nota. Leggermente meno convincenti “Necromancer” e “Children Of The Sun”, nonostante dei ritornelli che comunque non siamo ancora riusciti a toglierci dalla testa, il che la dice lunga sul talento che la band ancora dimostra nel saper giungere alle orecchie di ogni buon metallaro affezionato a determinate soluzioni compositive, e non solo. Sulle struggenti note di pianoforte dell’intermezzo “Guardians” si conclude la prima metà dell’album, lasciando spazio a una seconda parte altrettanto ispirata, che prosegue con la emblematica “Rising From Ruins”, in cui la band sembra quasi volersi ergere dalle rovine in cui alcuni li avevano già prontamente collocati, e con pezzi più duri e per certi versi ignoranti come “Flame Thrower” e “Traitors Gate”, nei quali Halford appare più indemoniato che mai nella sua interpretazione. Qualche sbadiglio forse sulla cadenzata “Spectre”, ma trattandosi di un lavoro di una durata simile ci può stare che non tutte le ciambelle riescano perfettamente con il buco. Ci avviciniamo alla fine con la rocciosa “No Surrender”, che stimolerebbe pressoché in chiunque la voglia di reagire a una qualsiasi difficoltà, e con la relativamente moderna “Lone Wolf” il cui guitar work, come detto anche in precedenza, ci ricorda per certi versi addirittura il periodo di “Jugulator” e persino alcune proposte provenienti dal metal americano di inizio anni ’90. Tutto ciò prima del finale rappresentato dalla conclusiva e lenta “Sea Of Red”, che ci accompagna dolcemente al silenzio che seguirà con un inizio praticamente da ballad e un proseguimento più duro ma decisamente evocativo, in cui troviamo persino dei cori utilizzati ad hoc. Che dire quindi? Un album sicuramente un po’ prolisso, ma maledettamente ben fatto e significativo di ciò che i Judas Priest rappresentano, nonché di ciò di cui c’era bisogno per poter nuovamente godere e emozionarsi con qualcosa di così ‘referenziale’ eppure apparentemente così al passo coi tempi: d’altronde l’heavy metal riesce spesso a essere tale ancora oggi, grazie anche e soprattutto a delle produzioni curate e a un songwriting ispirato. Non ci è dato sapere se questa sarà l’ultima volta che sentiremo parlare di un nuovo album dei Judas Priest, ma sicuramente, se così fosse, non possiamo assolutamente lamentarci e, anzi, ci auguriamo che, anche senza i due axemen storici, le nuove tracce siano in grado di esaltarci anche dal vivo nelle prossime occasioni.