8.5
- Band: JUDAS PRIEST
- Durata: 00:45:51
- Disponibile dal: 09/10/1978
- Etichetta:
- CBS Records
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Sono passati appena cinque anni dal debutto dei Judas Priest, ma l’evoluzione della band, in così poco tempo, ha un qualcosa di incredibile: sembrano lontanissime le radici hippie, le derive progressive e l’estetica smaccatamente anni Settanta. I Judas Priest nel 1978 sono una macchina da guerra di puro heavy metal e sono pronti a dare vita all’ennesima gemma capace di dettare le coordinate del genere. “Stained Class” è stato un successo, pur senza raggiungere ancora vendite o posizioni in classifica stratosferiche e i Judas Priest hanno tutta l’intenzione di scriverne un degno successore. La band, quindi, si chiude in studio con il produttore James Guthrie e ne emerge con un nuovo album, intitolato “Killing Machine” (il cui titolo, considerato fin troppo violento dalla CBS, verrà cambiato in “Hell Bent For Leather” per il sensibile mercato statunitense).
Così come era stato ai tempi di “Sin After Sin”, anche “Killing Machine” può essere considerato un album di raccordo, capace di rafforzare quei tratti di successo già ascoltati in “Stained Class” e di gettare le basi per quello stile sempre più diretto e che porterà al successo di “British Steel”. L’album si apre con una potentissima “Delivering The Goods”, un’altra grande opener firmata dai Judas Priest, che non ha avuto la stessa sorte fortunata di altri classici, pur non avendo niente da invidiare a tanti brani blasonati. Si prosegue con “Rock Forever”, caratterizzata da un Rob Halford sempre a livelli stellari, ma è con “Hell Bent For Leather” che la band dà vita ad uno dei momenti più alti della sua carriera. La canzone, firmata da un Glenn Tipton in stato di grazia, è una composizione iconica, perfetta nel suo incarnare ogni aspetto fondamentale del metallo più classico e puro: riff taglienti, la spavalderia di Halford, il ritmo incalzante, motori ruggenti, la moto sul palco. Se in un dizionario si volesse cercare la migliore definizione di heavy metal, questa canzone ne sarebbe la perfetta esemplificazione. Tolta questa, non sono moltissime le tracce di “Killing Machine” diventate dei classici (soprattutto dal vivo) ed è curioso come l’altro brano quasi sempre presente in scaletta sia un’altra cover, per giunta inserita solo nell’edizione statunitense: si tratta di “The Green Manalishi (With The Two Pronged Crown)”, un brano dei Fleetwood Mac che i Judas Priest hanno fatto proprio, tanto da diventare più famoso nella loro versione che non nell’originale. Eppure “Killing Machine” è zeppo di composizioni di valore: dall’inno “Take On The World”, precursore di quella “United” che ascolteremo nell’album successivo, passando per la potentissima “Burnin’ Up”, fino ad arrivare alla tagliente “Running Wild” o alla malinconica dolcezza di “Before The Dawn”, a parere di chi vi scrive la miglior ballad firmata dai Judas Priest nella loro carriera. La formazione ormai ha raggiunto un equilibrio perfetto, con il motore ritmico di Ian Hill e Les Binks a costruire una solidissima base su cui si incastrano le chitarre, complementari e sempre perfette, di KK Downing e Glenn Tipton. Halford, infine, continua a crescere ed è incredibile la quantità di sfumature e di colori che la sua voce riesce a dare alle singole canzoni.
Un album di questa caratura, dunque, potrebbe tranquillamente segnare il vertice di un’intera carriera per una band, ma i Priest non sono una band normale: loro appartengono a quella strettissima cerchia di formazioni che, per una grossa fetta della loro storia, sono riusciti a firmare un capolavoro dopo l’altro, riuscendo nella difficilissima impresa di continuare a superarsi album dopo album. “Killing Machine” ha pochissimi punti deboli, forse giusto “Evening Star”, eppure di lì a pochissimo Halford e compagni riusciranno a fare anche di meglio, scrivendo l’ennesima pagina fondamentale nella storia dell’heavy metal.