6.5
- Band: JUDAS PRIEST
- Durata: 01:45:00
- Disponibile dal: 16/06/2008
- Etichetta:
- Sony
- Distributore: Epic
Spotify:
Apple Music:
Negli ultimi anni i Judas Priest stanno vivendo una seconda giovinezza. Con il ritorno all’ovile di Rob Halford ed un disco tutto sommato classico come “Angel Of Retribution”, i padri dell’heavy metal avrebbero potuto continuare per questa strada sicura, senza problemi e con una buona prospettiva di riscontri artistici ed economici. Invece è noto quanto piaccia stupire a Tipton e Downing, i Judas Priest non si sono mai tirati indietro dinnanzi alle sfide più rischiose, quelle che posso anche portare via l’affetto del pubblico più conservatore. In passato diverse volte sono state intraprese scelte apparentemente assurde, ma che nel lungo periodo hanno dato ragione ai musicisti inglesi, di cui “Turbo” è stata la più eclatante: appena uscito si gridò allo scandalo, dopo anni viene allegramente ricordato come una grandissima prova in studio. “Nostradamus” farà nascere le stesse diatribe di un tempo, siamo di fronte a qualcosa di totalmente nuovo in casa Priest, per la prima volta i padri dell’heavy metal si cimentano in un lungo concept sulla figura del famoso astrologo e scrittore che con le sue profezie è divenuto una sorta di simbolo. Innanzitutto scordatevi “Painkiller”, scordate le canzoni granitiche e rocciose ed ogni sorta di classico priestiano. “Nostradamus”, a partire dalla intro “Dawn Of Creation”, si rivela infarcito di pesanti parti di tastiere, chitarre acustiche e impostato come una sorta di rock/metal opera, in cui tutti i brani incastrati uno dopo l’altro sembrano dar vita ad un’unica maestosa canzone. Diciamo ‘maestosa’ in quanto le atmosfere che permeano l’intera opera sono di carattere epico e solenne, grazie soprattutto alla performance magistrale di un Rob Halford che mai ha dato ai suoi testi una tale interpretazione, una caratura degna di un attore teatrale che con la sua voce racconta stati d’animo e momenti più o meno atmosferici della trama. L’anima musicale della band, Glenn e K.K., hanno compiuto un lavoro immane sul fronte melodico, delineando soluzioni appaganti, una sublime sinfonia per le nostre orecchie, che tra riff e geniali assoli ci accompagna dall’inizio alla fine del disco. “Prophecy” colpisce con un macigno grazie ad un refrain orgoglioso, un’invocazione al cielo che rivendica l’identità di Nostradamus, mentre su “Pestilence And Plague” troviamo il Metal God impegnato nella parte centrale del pezzo a cantare nella nostra lingua! I due brani appena citati sono gli episodi più grintosi del primo CD, le canzoni restanti (“Sands Of Time” e “Lost Love” su tutte) calano di intensità preferendo stupirci con soluzioni melodiche ed atmosfere più drammatiche e struggenti. La seconda parte di questo monumentale lavoro prosegue il racconto mantenendosi su sonorità soft, diversi brani sono praticamente delle ballad, eccezion fatta per la title track “Nostradamus”: tra riff che pescano a piene mani da “Painkiller” e “Ram It Down”, il pezzo nella parte centrale purtroppo si trasforma quasi in una power metal song. Sebbene in apparenza potrebbero esserci tutti i presupposti per essere ricordata come un capolavoro, l’ultima fatica dei Judas Priest non è purtroppo esente da difetti di rilievo. Il punto debole più evidente è stata l’incapacità di mantenere ai massimi livelli il coinvolgimento durante l’ascolto. Alla lunga l’attenzione va scemando e dedicarsi ad un intero ascolto dall’inizio alla fine si rivela impresa non da poco. Probabilmente la scelta di comporre canzoni come se fossero singoli tasselli di un unico grande puzzle ha gravato in modo molto più incisivo rispetto all’avere 23 capitoli staccati ed a sé stanti. Infine, la mancanza di un paio di killer song di tradizione priestiana si fa sentire pesante come un macigno, sarebbe stato il giusto anello di congiunzione col passato per attirare il favore dei die-hard fan più nostalgici e tradizionali. Con “Nostradamus” i Judas Priest hanno moderatamente centrato la loro opera più ambiziosa, il coraggio di osare ha dato loro ragione ancora una volta dimostrando che non c’è limite alla visione musicale di musicisti che, dopo trentacinque anni di onorata carriera, hanno ancora voglia di stupire.