9.5
- Band: JUDAS PRIEST
- Durata: 00:46:10
- Disponibile dal: 03/09/1990
- Etichetta:
- Columbia
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
Annvs Domini 1990: dopo un paio di album più fiacchi rispetto al livello dei lavori immediatamente precedenti (“Turbo”, del 1986, e “Ram It Down”, del 1988, contro capolavori assoluti tipo “Screaming For Vengeance” o “Defenders Of The Faith”), i Judas Priest sono reduci dall’ennesimo cambio di batterista, visto che il pur buono (e per un po’ stabile in formazione) Dave Holland è stato da poco sostituito da Scott Travis, proveniente dai Racer X. E’ proprio questo cambio la chiave di lettura a nostro giudizio più fondamentale per l’ascolto di “Painkiller”: da un approccio ritmico più vicino al rock classico (ricordiamo che la carriera di Dave Holland ha avuto inizio coi Trapeze, formazione funk-rock che ha annoverato tra le sue fila anche Glenn Hughes) si passa ad un moderno approccio metal (riferito, ovviamente, all’epoca indicata). Non sorprende, quindi, come le possibilità artistiche aperte da questo scenario abbiano fornito una provvidenziale iniezione di adrenalina con effetto immediato su tutta la formazione, rivitalizzandone il songwriting e le singole modalità espressive: Rob Halford raggiunge vette che non abbiamo più sentito, mentre il lavoro delle asce diviene più ispirato, tagliente e cattivo, con la conseguenza di tirare letteralmente a lustro lo stile del gruppo, facendo sì che le relative cromature, un poco appannate, tornassero a rifulgere accecanti come ai tempi di “British Steel”. Sin dall’incipit dell’album è percepibile come il beneficio tratto dall’avvicendamento sia concreto: l’intro di “Painkiller” è qualcosa di impresso ormai a fuoco nella memoria di tutti i metallari del globo e la canzone di per sé è manifesto esplicito dell’intera opera, trattandosi di un pezzo che incorpora tutti gli elementi compositivi tipici dei Judas Priest portati alla massima esaltazione. Stesso discorso può farsi per le canzoni successive, tuttavia ricordando che ognuna di loro si fa latrice di un diverso tipo di tensione emotiva: se da un lato si colloca l’epos intenso che domina “Leather Rebel”, o quello solenne di una “Hell Patrol”, dall’altro possiamo ascoltare l’incedere marziale di “All Guns Blazing”, ben accompagnato dalla trainante “Night Crawler” e dal groove di “Metal Meltdown”, contribuendo a formare un insieme compattissimo di brani, capaci – nella seconda metà del disco – di mostrare perfino significative variazioni dal punto di vista delle soluzioni compositive; “Between The Hammer & The Anvil”, “A Touch Of Evil” e la strutturata “One Shot At Glory” fanno affiorare suggestioni che parevano limitate a lavori come “Sad Wings Of Destiny” o “Sin After Sin”, ovviamente rapportate in maniera coerente al relativo periodo di pubblicazione. “Painkiller” si propone, dunque, come summa e sintesi ragionata della discografia priestiana fino a quel momento, concepite da una band entusiasta di poter modulare la propria espressività secondo canoni più moderni e (diciamolo!) estremi, dando forma a quello che per molti fu un capolavoro del tutto inaspettato, oltre che una delle uscite più feroci del suo genere.