8.0
- Band: JUDAS PRIEST
- Durata: 00:49:39
- Disponibile dal: 17/05/1988
- Etichetta:
- Columbia
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Stretto tra i lustrini e le paillette di “Turbo” e l’opulenza metallica di “Painkiller”, “Ram It Down” rischia di passare come opera minore dell’infinita discografica priestiana. E se non lo si può annoverare (forse, il dubitativo è d’obbligo) tra i capolavori intramontabili della band, ha un suo fascino particolare, dato essenzialmente dalla fusione di un suono metallico a dismisura – in questo preannunciando quanto accadrà qualche anno più tardi – e di melodie ruffianissime, in questo richiamando esplicitamente le tendenze di “Turbo”. Solo che rispetto al patinato e ammiccante predecessore qua le velocità, la foga, la carica sono tutt’altra cosa e conducono ad alcuni tour de force fragorosi, che se fossero stati prodotti in altri dischi avrebbero sicuramente goduto di ben altra rilevanza nell’immaginario collettivo. La titletrack è con ogni probabilità anche il suo episodio più riuscito, un inno spericolato, sfrontato, per delirio percussivo, sonico e testuale quella che avrebbe potuto essere l’ideale colonna sonora di un capitolo della saga di Mad Max o di altra cinematografia basata su macchine di potenza esagerata, rumorose e con sprezzo completo della legalità.
L’acutissimo, lacerante urlo halfordiano in apertura, il mulinare di colpi di Holland e l’entrata del primo stridore chitarristico pongono “Ram It Down” come un’apertura iconica e intramontabile della discografia priestiana: dritta, ossessiva, fragorosamente metallica e arrembante per tutta la sua durata. Quel “shout it out, we’re all together now” che parte all’improvviso nel cataclisma, conduce a un tema in contrapposizione a quello della pura metallurgia avanzata, ovvero certune strizzate d’occhio alla melodiosità leggera ottantiana. E se la raffica di assoli incrociati in arrivo poco dopo sembra mettere in disparte questo spunto, più avanti il bilanciamento di atteggiamenti da spietati defender e gli ancheggiamenti di “Turbo” ritorna a farsi sentire eccome. Prima di qualche ‘svenevolezza’ leggera leggera, meglio chiarire il discorso una volta per tutte sul tipo di musica affrontato: “Heavy Metal” è ad appannaggio di un Halford stridulo, tracotante, in piena estasi metallica. Una canzone cafona ed efferata, un ciondolare insistito che alimenta l’isterismo del cantante, mentre il basso di Hill pulsa incessante. In “Love Zone” il connubio durezza-commercialità fiorisce in tutto il suo fulgore, il riffing si arrotonda nel rock’n’roll, Halford gigioneggia, il ritornello è una goduria piaciona che sarebbe stata benissimo pure su “Turbo”.
È altrettanto irresistibile “Come And Get It”, arena rock in versione priestiana, giocata molto sui suoni sintetici della batteria, secondo una tendenza imperversante all’epoca. “Hard As Iron” fomenta fin dal titolo e i suoi contenuti non tradiscono, offrendoci un anthem orgoglioso, veloce e in crescendo, diviso tra spietatezza e coralità, con una delle migliori sezioni soliste del disco a brillare. Nella seconda metà, subito il gioiello “Blood Red Skies”, da annoverare tra i migliori esempi di Judas Priest lenti, crepuscolari, a loro agio in questa dimensione di realtà/non realtà dominata da computer, laser, neon, con la canzone che va difatti a imperniarsi su struggenti tappeti di sintetizzatori. L’hard rock, neanche chissà quanto duro, ritorna in auge per “I’m A Rocker”, episodio che per chi scrive rimane solo gradevole, molto lineare e senza grandi sobbalzi d’umore, compreso un ritornello mancante di quell’adrenalina del quale il resto dell’album è tracimante. Ottima invece la rivisitazione di “Johnny B. Goode” di Chuck Berry, rivista in modo tale da essere sì un brano dei Judas Priest ben contestualizzato nel disco, ma che non fa alcun mistero di provenire da un’altra mano e un’altra mente. Tutta la band gira benissimo in questo caso, consentendo inoltre di segnare una piccola hit utile per far scoprire il gruppo anche ai non-metallari.
“Love You To Death” riprende un po’ i toni muscolari e sporchi di “Heavy Metal” e romba come l’Harley Davidson cavalcata da Halford durante i concerti, un concentrato di clichè metallici come se ne sentono sempre volentieri. “Monsters Of Rock” è una chiusura autocelebrativa carica di pathos, forse un poco elementare e priva di grossi sviluppi, ma comunque efficace nel comunicare il messaggio che i cinque sono tornati a essere duri, cattivi e affamati. “Ram It Down” riporta in primo piano la sferzante potenza metallica andata a disperdersi col discusso predecessore, indirizzando il futuro dei Metal Gods verso una roboante seconda giovinezza…