5.5
- Band: KADAVAR (Ger)
- Durata: 00:41:00
- Disponibile dal: 16/05/2025
- Etichetta:
- Clouds Hill
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C’erano una volta i Kadavar, una promettente formazione vintage che mescolava psichedelia e stoner rock, con quell’immaginario hippie figlio degli anni Sessanta e Settanta. Tra i primi a recuperare certe sonorità in maniera metodica, assieme a band come Witchcraft e Graveyard, nel corso degli anni si sono ritagliati uno spazio importante nella scena.
Questa formazione tedesca, però, sogna qualcosa di più grande. Si è stufata, probabilmente, di suonare nei club per un pubblico di capelloni con i pantaloni a zampa e le barbe incolte: i Kadavar sognano le grandi arene, i ledwall giganteschi, i giochi di luce, le folle che ballano e saltano negli stadi… Così, dopo un lento percorso di allontanamento dal loro passato, con “I Just Want To Be A Sound” i Kadavar danno un taglio netto e scrivono un album pop-rock, né più né meno, ispirandosi non più a dinosauri sotto naftalina come Black Sabbath, Hawkwind, Blue Cheer o, al limite, Kyuss; ma a formazioni molto più contemporanee, tipo gli Imagine Dragons, o certi album dei Muse. Stiamo esagerando? Non troppo, a dir la verità, perché raramente abbiamo assistito ad uno stacco così netto con il proprio passato.
Poste queste premesse, cerchiamo di evitare qualsivoglia pregiudizio e proviamo a giudicare “I Just Want To Be A Sound” per quello che è. Non è un crimine voler cambiare, né volersi spostare su lidi più mainstream e larghi. Il problema è che, contrariamente a quanto si pensi, fare un grande disco pop non è affatto facile. Servono investimenti, un team di lavoro di professionisti e, soprattutto, serve un’attitudine che i Kadavar non hanno. Le canzoni di questo disco provano a strizzare l’occhio al mainstream, ma sono spente, goffe. Se è vero che la title-track riesce ad essere quasi convincente, basta ascoltare brani come “Hysteria”, “Let Me Be A Shadow” o “Truth” per accorgersi di quanto la band non sappia creare delle melodie coinvolgenti, risultando totalmente fuori luogo, proprio come qualcuno che, abituato a vestirsi di nero, ad un certo punto si trovi agghindato di colori accesi, piume e paillettes. Non è una cosa che tutti possono permettersi.
Cosa si salva, quindi? Guarda caso gli episodi in cui la band si allontana da questa formula, facendo cose sì lontane dal passato, ma tutto sommato coerenti con la loro identità. È il caso di “Scar On My Guitar”, canzone graffiante e vagamente punk in cui finalmente torna un po’ di vitalità; oppure “Star”, una ballata spaziale dalle sonorità psichedeliche sì contemporanee, ma che recupera un’ottima vena floydiana.
Il passo compiuto dai Kadavar, insomma, è molto azzardato, perché – come è accaduto tante volte in passato – rischia di alienare il pubblico storico, senza riuscire davvero a guadagnarne di nuovo. Nella partita di poker della loro carriera, i Kadavar hanno fatto all in. Magari ci stiamo sbagliando, sbancheranno il tavolo e ce li ritroveremo headliner al Coachella. Da parte nostra, ci permettiamo solo un suggerimento: forse conviene cambiare nome, perché non è facile arrivare sulla vetta di Billboard, tra una Dua Lipa e una Taylor Swift, chiamandosi Kadavar.