6.5
- Band: KAIPA
- Durata: 01:09:00
- Disponibile dal: 27/08/2012
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: EMI
Spotify:
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Ammettiamolo, ha tutto un altro gusto assaporare un disco di progressive rock anni Settanta, sfornato da una band che nasce davvero in quegli anni pregni di talento e creatività e che tutt’ora influenzano gruppi di ragazzi che, in molti casi, in quel periodo non erano neppure un’idea nella testa di mamma e papà. Sfogliare un vecchio fumetto, magari trovato in un mercatino, in mezzo a tante cose inutili, ci dona un piacere differente dal leggerne una ristampa, o peggio, un’imitazione. Ecco allora che, con i Kaipa, possiamo ascoltare dei musicisti che hanno vissuto gli anni d’oro del prog, ed influenzati dai combo anglosassoni (e cribbio, ammettiamolo, anche da quelli italiani!) e che sono ancora tra noi, nonostante pause piuttosto lunghe, per proporci la loro particolare visione del rock. La band svedese, da sempre fautrice di un hard-rock sinfonico, decisamente progressive e che accoglie influenze fusion e folk, ci presenta il nuovo “Vittjar”, disco che a tratti ci rimanda ai Gentle Giant, agli Yes ed ai Genesis, per poi evocarci in modo quasi subliminale (come quando un profumo di donna, percepito nella folla, per un attimo ci ricorda un amore passato) i Queen più sinfonici ed orchestrali, il tutto elaborato secondo il gusto del pop più cristallino ed “elevato”, tipicamente scandinavo. Molto belle le influenze folk, qui palesate in partiture eseguite da flauti e violini, spesso doppiati dalla chitarra del virtuoso Per Nillson (Scar Symmetry), davvero il protagonista di questo bel CD, forse a volte eccessivo nel voler dimostrare la sua perizia (tra l’altro ampiamente riconosciuta), esagerando nel proporre tecniche chitarristiche anacronistiche in questo contesto (immaginate Petrucci che irrompe in “Parsifal” dei Pooh, tanto per farvi un esempio). Sembrano davvero arrivare dagli anni Settanta le voci di Patrik Lundström e Alena Gibson, eteree, perfette nel loro intersecarsi, completandosi e arricchendosi vicendevolmente. Una produzione assolutamente sopra le righe premia il basso pulsante di Jonas Reingold, fautore di una prova maiuscola e vero endo-scheletro del groove della band. Venendo alle note dolenti, non possiamo non storcere il naso di fronte alla loro ennesima pessima copertina, così come il pezzo posto in apertura (“First Distraction”) è un compendio di tutto ciò che troveremo nel bene e nel male nel resto del disco: assolo di chitarra che a volte sembra distrarci dal brano ed una scorrevolezza e fluidità nell’ascolto piuttosto latente. Un disco sicuramente bello, ma non essenziale.