7.0
- Band: KARG
- Durata: 00:54:45
- Disponibile dal: 18/04/2025
- Etichetta:
- Art Of Propaganda
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Se il progetto più noto al pubblico metal di Michael Kogler, alias J.J., è quello degli Harakiri For The Sky, da oltre dieci anni uno dei più autorevoli e ammirati esponenti del movimento post-black metal, la sua creatura più prolifica e longeva è un’altra. Parliamo dei Karg, avviati ormai quasi vent’anni fa e con questo “Marodeur” al traguardo del nono album, anche in questo caso, come per la sua band più nota, in stretta collaborazione con la casa discografica Art Of Propaganda.
La storia dei Karg è quella di una one-man band, fino al 2018: da quell’anno Kogler percepisce l’esigenza di un allargamento di line-up e affiora il desiderio di suonare dal vivo. Movimentata la questione anche per quanto riguarda l’ambito stilistico, coi primi lavori dal feeling più ispido e underground, dalle ampie contaminazioni ambient, mentre l’oggi ci parladi un caleidoscopio di umori, sensazioni, immagini e, ovviamente, suoni dal taglio spesso gentile, introspettivo, con cadenze e arrangiamenti solo parzialmente affini al black metal e al suo prefisso ‘post-’.
Gli Harakiri For The Sky rimangono in ogni caso un buon punto di partenza per dare un primo riferimento orientativo, d’altronde il musicista austriaco finisce per andare a parare di preferenza su sonorità struggenti, ruvidamente malinconiche, fragilmente rabbiose, incostanti e con addosso tanto amore per lo shoegaze. La differenza principale è che gli Harakiri For The Sky hanno una direzione più univoca, propendono meno per le sperimentazioni e grosse variazioni da una canzone all’altra – cover escluse, beninteso – e danno maggiore slancio e coinvolgimento ‘di pancia’ alle loro composizioni.
La musica dei Karg, per quanto non ermetica o troppo intellettuale, né così difficilmente accessibile, ha caratteristiche più sfuggenti e propensione a portare al suo interno influssi esterni. Si sente, a nostro avviso, che ancora oggi il gruppo, per quanto nominalmente un quintetto, sia legato ai desideri del leader di far convogliare al suo interno tante cose diverse, cercando di armonizzarle in un discorso unitario, pur senza perdere in eclettismo.
A tre anni dall’apprezzato “Resignation” – in mezzo, l’EP “Trauerjahre” del 2024 – non ci sono arie di rivoluzioni in “Marodeur”, ciò nonostante la formazione austriaca sa estrarre un’altra tracklist dai molti significati, lontana dall’essere un prodotto ‘usa e getta’ o una mera collezione di soluzioni già esposte fino alla nausea. Se pensate che la fascinosa copertina in tonalità seppia sia una semplice furbata per catturare attenzioni potreste anche aver ragione, ma si può notare che questa idea sia in linea al tipo di produzione, orientata al lo-fi pur senza esagerare.
L’atmosfera generale è sobriamente triste, il black metal striato di shoegaze, post-rock e alternative rock non si muove su coordinate così lontane da quelle del gruppo più noto di Kogler – anche per un modo di cantare identico a quello degli Harakiri For The Sky – ma i contorni sonori sono meno netti e le cadenze non così arrembanti come in un “Aokigahara” o il recentissimo “Scorched Earth”. Il riffing è mediamente piuttosto docile, c’è un feeling languido e dolcemente nostalgico a farsi strada, come nella composita opener “Schnee ist das Blut der Geister”; qui l’inserimento di prolungati tappeti pianistici fa molto per dare colore e spessore al brano, uno dei migliori della raccolta.
Nonostante le sue connotazioni, almeno in partenza, provenienti dal metal estremo, la musica si fa spesso gentile, pacata, una specie di screamo virato al black metal, punteggiato di frequente da melodie ariose. Il disperato latrato di Kogler va così a contrastare con un’impronta sonora nient’affatto ruvida o tranciante.
Come e più che negli Harakiri For The Sky, i brani prendono la piega di un tracimante flusso di coscienza del cantante, con l’effetto a volte di tirarla un po’ per le lunghe, a dire il vero. A mettere un argine a tale sensazione ci pensano elementi di contorno, come una seconda voce più pacata in “Yūgen”, o le incursioni di violino dell’ospite Klara Bachmair (Firtan, Visna).
Le cavalcate più tipicamente post-black metal suonano leggermente prevedibili e non così memorabili, al contrario i dialoghi chitarristici per creare armonie azzurrine, tonalità sognanti e serene, riescono a evitare sia di cadere in cliché, sia eccessiva ripetitività. Pur con qualche momento di prolissità, “Marodeur” si rivela infine una buona aggiunta al catalogo dei Karg e più in generale all’ampia discografia firmata dall’instancabile Kloger. I suoi picchi creativi sono probabilmente altrove, ma anche questo lavoro si fa ascoltare volentieri.