7.0
- Band: KAYO DOT
- Durata: 00:49:38
- Disponibile dal: 16/10/2014
- Etichetta:
- Flenser Records
Spotify:
Apple Music:
Una band che ha fatto dell’imprevidibilità una carriera e della multidirezionalità stilistica una bandiera non può non lasciare spiazzati ad ogni release. E i Kayo Dot hanno sempre fatto proprio questo, licenziando lavori estremamente eterogenei, a volte neanche definibili come metal, altre volte dettati da tratti più estremi della maggior parte del metal stesso. Con questo nuovo capitolo Toby Driver e compagni hanno fatto una inversione a “U”, deragliando completamente dallo stile delle due ultime opere che ne avevano segnato il ritorno al metal dopo anni di assenza e abbandonano ancora una volta qualunque ambiente “rock” per dedicarsi a tutt’altro. “Coffins On Io” infatti è una sorta di grottesco album dream pop. Un viaggio malizioso ed allucinato attraverso acid jazz, elettronica, lounge, soul, trip-pop e avanguardia pura. Nel sentire queste sei astrattissime tracce vengono in mente una vera e propria marea di allusioni. Si sentono gli Ulver di “Perdition City” e “Blood Inside”, le cavalcate psych-kraut basate sui synth analogici degli Zombi, dei Kraftwerk e dei Tangerine Dream ed anche le scurissime e abbattute melodie dei Dead Can Dance di “The Serpent’s Egg”. Delle chitarre non vi è quasi rimasta alcuna traccia e al loro posto sembrano regnare indisturbati synth e tastiere onnipresenti e sospinti nelle direzioni più disparate. Questi tratti sono specialmente riscontrabili nelle prime due canzoni di apertura – la lugubre “The Mortality of Doves” e la sbilenca “Offramp Cycle, Pattern 22”. Passati questi due pezzi e addentrandosi nel disco, le cose cominciano a complicarsi ulteriormente e l’ascolto si fa quasi allucinatorio. “Longtime Disturbance On the Miracle Mile” è quasi una versione dream-pop delle cose più ariose fatte dai Kilimajaro Darkjazz Ensemble, una sorta di lugubre e psichedelica canzone lounge guidata dalla voce stellare di Driver, mentre la successiva “Librabry Subterranean” è una funerea traccia di neo-electro jazz avvolta in una malinconia conturbante, che da un lato mostra un taglio quasi “sexy” e dall’altro trasmette un disturbante senso di grottesco difficile da digerire. Qua davvero si percepisce lo spettro degli Zombi ma la band sembra aver reinterpretato lo stesso verbo psichedelico cercando di farne una canzone vera e propria con delle melodie discernibili e una struttura convenzionale. “The Assassination of Adam” invece sembra una traccia dei Fugazi o degli Husker Du, triturata insieme alle cose più sperimentali e rallentata dei Genghis Tron: indie rock sporco e ruvido annegato in un gorgo surreale di tastiere e synth e ulteriormente impestato dalle funeste ritmiche dell’avantgarde-jazz. Chiude “Spirit Photography” funerea – e bellissima – processione di introspettivo doom-jazz minimale che non sfigurerebbe affatto tra le migliori cose fatte dai Bohren And Der Club of Gore. Siamo insomma davanti all’astrazione più totale che si possa immaginare, di fronte ad una band che sembra non avere alcun confine discernibile, ancora una volta al cospetto dell’indefinibile.