KAYO DOT – Hubardo

Pubblicato il 10/09/2013 da
voto
8.5
  • Band: KAYO DOT
  • Durata: 01:34:46
  • Disponibile dal: 01/09/2013

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Dieci anni di onoratissima carriera celebrata con un capolavoro di proporzioni titaniche e con la creazione di quello che forse è il più grande album mai fatto dai Kayo Dot e senza dubbio il miglior album avantgarde metal dell’anno. Non ci giriamo tanto intorno, “Hubardo” è un capolavoro e pur nella sua natura ermetica e impenetrabile è un lavoro che trasuda genio da tutti i pori e che risulta, al di là dei gusti e delle inclinazioni di ognuno, osticissimo senza dubbio ma artisticamente inattaccabile. A coronamento di un lavoro tecnicamente e sostanzialmente ineccepibile, Toby Driver ha aggiunto una ultima ciliegina sulla torta che sancisce definitivamente il trionfo e che ci ruba tutta la sua approvazione. “Hubardo” è infatti pesante, tanto pesante. E’ un album finalmente metal nello scheletro e sperimentale nelle carni; lugubre, contorto e violento, ed erano anni che attendavamo il ritorno dei Kayo Dot in lidi metal e sonicamente opprimenti, poiché di quel mostruoso “Choirs of the Eye” non abbiamo mai perso memoria mentre di album slegati dal metal come “Blue Lambency Downward” e del suo blando carico melodico-emotivo non abbiamo mai sentito la mancanza. Perdonaci la sfrontatezza Toby, sei un musicista fenomenale in grado di trasformare in oro tutto quel che tocchi e di suonare qualunque genere e qualunque strumento, ma è quando ti metti a suonare metal con la M maiuscola e come solo tu lo concepisci che i Kayo Dot ci travolgono e ci fanno rimanere a terra, sgomenti e traumatizzati. Questa è una premessa impossibile da non fare: “Hubardo” è un calvario, un supplizio. E’ un album violento e spietato. Il lavoro si apre con “The Black Stone”, dieci minuti di avant-jazz annerito, improvvisato deforme e sconnesso in cui i Painkiller seducono nel peccato più innominabile i Deathspell Omega di “Kenose”. Tentacoli sonori astratti, inafferrabili e sfuggenti ma veri. Orrori che strisciano nel caos, ma reali, guidati da una voce che di umano non ha nulla se non la manipolazione della paura. Segue “Crown-In-The-Muck” ritorno trionfante di Driver ai fasti di “Choirs Of The Eye” e traccia che può essere considerata classica dei Kayo Dot. Composizione free-form, ritmiche ossessive e opprimenti tipiche del doom, cambi di tempo e metrica come se piovesse, sassofoni e clarinetti impazziti che disegnano traiettorie grottesche scollegando lo scheletro metallico della canzone dalle sue carni neoclassiche. Ecco che la musica di Driver sublima grazie alla costante operazione di collante e cuscinetto che il jazz svolge nella musica dei Nostri, strattonata in direzioni opposte da generi antitetici quali metal e lidi neoclassici e accademici. “Thief” segue il trend dei predecessori ma fa franare ulteriore terreno sotto i piedi di un ascoltatore sempre più sgomento e terrificato alternando con più veemenza e rabbia blast beat a violini, urla sconnesse e laceranti a canti angelici e soavi e chitarrone plumbee e opprimenti a delicate radure neo-jazz dominate dal sax e dal clarinetto. “Vision Adjustument to Another Wavelength” e “Zilda Coasgi” ampliano il calvario con nettezza aprendo definitivamente le chiuse al black metal e permettendogli di inondare tutto incontrastato riempendoci le orecchie di sangue fino a lavoro concluso. Il blast beat si fa più insistente, le chitarre più oblique, dissonanti e taglienti, e l’andazzo delle canzoni si fa più maligno e repulsivo. Qua il rimando agli oblii violenti e ultraterreni dei Deathspell Omega diventa lampante, come anche l’accostamento sempre più insistente con realtà malate dell’extreme metal, quali Portal, Gorguts, Beherit, gli stretti cugini Enhare (quanto devono a Driver!) e perfino i Leviathan. Anche i flauti e le chitarre acustiche cominciano a disegnare traiettorie sbilenche e a divagare in maniera sconnessa chiudendosi in angoli di ripetitività e circolarità malata e grottesca. Il tono delle voci assume spesso connotati da manicomio evocando scenari raggelanti di pura e semplice pazzia o della paranoia più angosciante. Il disco intero è una guerra tra violenza e grazia, tra deformità e bellezza, tra maligno e angelicità. Una traccia come “The First Matter” ne è un esempio lampante. Il basso tondo e pulsante e la voce soave e malinconica di Driver rimandano al goth inglese degli anni Ottanta, ai Fields of the Nephilim e ai Sisters of Mercy, ma il synth storto e avvitato su se stesso che fa da sottofondo evoca scenari malsani e sinistri di difficile individuazione ma semplicissimi da bollare come raggelanti. Non è da meno la seguente “The Second Operation” traccia di neoclassicismo struggente in cui trapela tutta l’abilità del Driver compositore in ambiti neoclassici o comunque accademici grazie allo strapotere di archi, percussioni orchestrali e fiati, tutti ovviamente calati in un tripudio malsano e nauseabondo di sussurri, cori e sibili ultraterreni che creano un contrasto agghiacciante. La fine del disco è un tripudio totale di black metal, doom, sludge, free-jazz, noise e astrattismo compositivo totale che trova il suo zenit di violenza nella traccia-mostro “Floodgate” (la “chiusa”, appunto, di cui vi parlavamo sopra) che fa balzare in mente addirittura i nomi di Ulcerate, Akerchoke e Mayhem e che sublima con particolare fragore nella penultima “Passing The River”, sorta di traccia simbolo di una estetica altrimenti inafferrabile nei singoli momenti e sovrastata nel finale da un colossale breakdown alla Neurosis e da una melodia vocale trionfante. Stupisce qui il modo in cui Driver e soci hanno forzato in un lavoro formalmente immane e iper-ambizioso (parliamo di oltre un’ora e mezza di musica!) praticamente tutto tranne che ciò che è abbordabile, comprensibile o anche banalmente familiare. I Kayo Dot con “Hubardo” hanno fatto il miracolo di creare un lavoro di avanguardia e sperimentazione pura lunghissimo e tortuoso che però incredibilmente scorre come il più armonioso dei fluidi e non fa mai calare l’attenzione e non molla mai la presa sui nostri sensi neanche per un secondo. Questo è un trionfo assoluto per Driver e un risultato veramente da pochi di fronte a cui è doveroso veramente togliersi il cappello. Ancor più sbalorditivo di questo lavoro è il suo impavido spirito d’avventura, e la sicurezza e fermezza con la quale la band ha effettuato operazioni compositive e scelte stilistiche difficilissime con risultati però incredibili per fluidità e nitidezza. La facilità con cui il lavoro ha saputo unire mondi opposti come quello della chamber music e del black metal, per esempio, in un’armonia e grazia disarmanti sono cose che forse non capiremo mai di questo album e di questa band. Aggiungete a questi due punti una serie infinita di cause ed effetti vari quali la produzione stellare in analogico di Randall Dunn, la tecnica mostruosa di ogni membro (tutti polistrumentisti e tutti provenienti da mondi musicali accademici), lo stato di grazia creativo in cui versa Driver da qualche anno (vedasi Vaura e Secret Chiefs 3), il fatto che l’intero lavoro è autoprodotto e privo del supporto di un’etichetta e capirete che i numeri per la creazione del capolavoro sono tutti lì di fronte ai nostri occhi, indiscutibili, immani, enormi, impossibili da contare o da discutere. Potremmo andare avanti all’infinito ma ci fermiamo qua. Siamo già andati oltre, e le parole tanto non riuscirebbero mai a spiegare.

TRACKLIST

  1. 1. The Black Stone (10:38)
  2. Crown-In-The-Muck (8:54)
  3. Thief
  4. Vision Adjustment To Another Wavelength
  5. Zodelida Caosaji (To Water The Earth)
  6. The First Matter (Saturn In The Guise Of Sadness)
  7. The Second Operation (Lunar Water)
  8. Floodgate
  9. And He Built Him A Boat
  10. Passing The River
  11. The Wait Of The World
6 commenti
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