8.5
- Band: KAYO DOT
- Durata: 01:34:46
- Disponibile dal: 01/09/2013
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Dieci anni di onoratissima carriera celebrata con un capolavoro di proporzioni titaniche e con la creazione di quello che forse è il più grande album mai fatto dai Kayo Dot e senza dubbio il miglior album avantgarde metal dell’anno. Non ci giriamo tanto intorno, “Hubardo” è un capolavoro e pur nella sua natura ermetica e impenetrabile è un lavoro che trasuda genio da tutti i pori e che risulta, al di là dei gusti e delle inclinazioni di ognuno, osticissimo senza dubbio ma artisticamente inattaccabile. A coronamento di un lavoro tecnicamente e sostanzialmente ineccepibile, Toby Driver ha aggiunto una ultima ciliegina sulla torta che sancisce definitivamente il trionfo e che ci ruba tutta la sua approvazione. “Hubardo” è infatti pesante, tanto pesante. E’ un album finalmente metal nello scheletro e sperimentale nelle carni; lugubre, contorto e violento, ed erano anni che attendavamo il ritorno dei Kayo Dot in lidi metal e sonicamente opprimenti, poiché di quel mostruoso “Choirs of the Eye” non abbiamo mai perso memoria mentre di album slegati dal metal come “Blue Lambency Downward” e del suo blando carico melodico-emotivo non abbiamo mai sentito la mancanza. Perdonaci la sfrontatezza Toby, sei un musicista fenomenale in grado di trasformare in oro tutto quel che tocchi e di suonare qualunque genere e qualunque strumento, ma è quando ti metti a suonare metal con la M maiuscola e come solo tu lo concepisci che i Kayo Dot ci travolgono e ci fanno rimanere a terra, sgomenti e traumatizzati. Questa è una premessa impossibile da non fare: “Hubardo” è un calvario, un supplizio. E’ un album violento e spietato. Il lavoro si apre con “The Black Stone”, dieci minuti di avant-jazz annerito, improvvisato deforme e sconnesso in cui i Painkiller seducono nel peccato più innominabile i Deathspell Omega di “Kenose”. Tentacoli sonori astratti, inafferrabili e sfuggenti ma veri. Orrori che strisciano nel caos, ma reali, guidati da una voce che di umano non ha nulla se non la manipolazione della paura. Segue “Crown-In-The-Muck” ritorno trionfante di Driver ai fasti di “Choirs Of The Eye” e traccia che può essere considerata classica dei Kayo Dot. Composizione free-form, ritmiche ossessive e opprimenti tipiche del doom, cambi di tempo e metrica come se piovesse, sassofoni e clarinetti impazziti che disegnano traiettorie grottesche scollegando lo scheletro metallico della canzone dalle sue carni neoclassiche. Ecco che la musica di Driver sublima grazie alla costante operazione di collante e cuscinetto che il jazz svolge nella musica dei Nostri, strattonata in direzioni opposte da generi antitetici quali metal e lidi neoclassici e accademici. “Thief” segue il trend dei predecessori ma fa franare ulteriore terreno sotto i piedi di un ascoltatore sempre più sgomento e terrificato alternando con più veemenza e rabbia blast beat a violini, urla sconnesse e laceranti a canti angelici e soavi e chitarrone plumbee e opprimenti a delicate radure neo-jazz dominate dal sax e dal clarinetto. “Vision Adjustument to Another Wavelength” e “Zilda Coasgi” ampliano il calvario con nettezza aprendo definitivamente le chiuse al black metal e permettendogli di inondare tutto incontrastato riempendoci le orecchie di sangue fino a lavoro concluso. Il blast beat si fa più insistente, le chitarre più oblique, dissonanti e taglienti, e l’andazzo delle canzoni si fa più maligno e repulsivo. Qua il rimando agli oblii violenti e ultraterreni dei Deathspell Omega diventa lampante, come anche l’accostamento sempre più insistente con realtà malate dell’extreme metal, quali Portal, Gorguts, Beherit, gli stretti cugini Enhare (quanto devono a Driver!) e perfino i Leviathan. Anche i flauti e le chitarre acustiche cominciano a disegnare traiettorie sbilenche e a divagare in maniera sconnessa chiudendosi in angoli di ripetitività e circolarità malata e grottesca. Il tono delle voci assume spesso connotati da manicomio evocando scenari raggelanti di pura e semplice pazzia o della paranoia più angosciante. Il disco intero è una guerra tra violenza e grazia, tra deformità e bellezza, tra maligno e angelicità. Una traccia come “The First Matter” ne è un esempio lampante. Il basso tondo e pulsante e la voce soave e malinconica di Driver rimandano al goth inglese degli anni Ottanta, ai Fields of the Nephilim e ai Sisters of Mercy, ma il synth storto e avvitato su se stesso che fa da sottofondo evoca scenari malsani e sinistri di difficile individuazione ma semplicissimi da bollare come raggelanti. Non è da meno la seguente “The Second Operation” traccia di neoclassicismo struggente in cui trapela tutta l’abilità del Driver compositore in ambiti neoclassici o comunque accademici grazie allo strapotere di archi, percussioni orchestrali e fiati, tutti ovviamente calati in un tripudio malsano e nauseabondo di sussurri, cori e sibili ultraterreni che creano un contrasto agghiacciante. La fine del disco è un tripudio totale di black metal, doom, sludge, free-jazz, noise e astrattismo compositivo totale che trova il suo zenit di violenza nella traccia-mostro “Floodgate” (la “chiusa”, appunto, di cui vi parlavamo sopra) che fa balzare in mente addirittura i nomi di Ulcerate, Akerchoke e Mayhem e che sublima con particolare fragore nella penultima “Passing The River”, sorta di traccia simbolo di una estetica altrimenti inafferrabile nei singoli momenti e sovrastata nel finale da un colossale breakdown alla Neurosis e da una melodia vocale trionfante. Stupisce qui il modo in cui Driver e soci hanno forzato in un lavoro formalmente immane e iper-ambizioso (parliamo di oltre un’ora e mezza di musica!) praticamente tutto tranne che ciò che è abbordabile, comprensibile o anche banalmente familiare. I Kayo Dot con “Hubardo” hanno fatto il miracolo di creare un lavoro di avanguardia e sperimentazione pura lunghissimo e tortuoso che però incredibilmente scorre come il più armonioso dei fluidi e non fa mai calare l’attenzione e non molla mai la presa sui nostri sensi neanche per un secondo. Questo è un trionfo assoluto per Driver e un risultato veramente da pochi di fronte a cui è doveroso veramente togliersi il cappello. Ancor più sbalorditivo di questo lavoro è il suo impavido spirito d’avventura, e la sicurezza e fermezza con la quale la band ha effettuato operazioni compositive e scelte stilistiche difficilissime con risultati però incredibili per fluidità e nitidezza. La facilità con cui il lavoro ha saputo unire mondi opposti come quello della chamber music e del black metal, per esempio, in un’armonia e grazia disarmanti sono cose che forse non capiremo mai di questo album e di questa band. Aggiungete a questi due punti una serie infinita di cause ed effetti vari quali la produzione stellare in analogico di Randall Dunn, la tecnica mostruosa di ogni membro (tutti polistrumentisti e tutti provenienti da mondi musicali accademici), lo stato di grazia creativo in cui versa Driver da qualche anno (vedasi Vaura e Secret Chiefs 3), il fatto che l’intero lavoro è autoprodotto e privo del supporto di un’etichetta e capirete che i numeri per la creazione del capolavoro sono tutti lì di fronte ai nostri occhi, indiscutibili, immani, enormi, impossibili da contare o da discutere. Potremmo andare avanti all’infinito ma ci fermiamo qua. Siamo già andati oltre, e le parole tanto non riuscirebbero mai a spiegare.