7.5
- Band: KEN MODE
- Durata: 00:37:54
- Disponibile dal: 15/06/2015
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Mai fermi e mai domi, i Ken Mode, uno dei gruppi più importanti e rappresentativi della scena noise rock/metal. A soli due anni dall’ottimo “Entrench”, disco che assieme al precedente “Venerable” aveva finalmente portato un po’ di attenzione al trio dei fratelli Matthewson, gli eredi degli Unsane hanno operato una sterzata stilistica piuttosto brusca e imprevista. “Success”, sesto full-length della formazione canadese, potrà apparire indigesto, sconcertante, per chi ha divorato i passati lavori dei Nostri, inferni industriali di noise, sludge, hardcore, rumori metallici e depravazioni compiaciute. Album, gli ultimi, ormai completamente ascrivibili al metal propriamente detto, un ambito a cui “Success” appartiene solo in parte. Infatti, come dichiarato apertamente nelle note biografiche di presentazione, il trio ha voluto riscoprire l’indie rock di inizio Anni ’90, quello che li ha influenzati e gli ha dato gli stimoli decisivi per “mettersi in proprio” e fondare la band. I Ken Mode hanno accettato una bella sfida, non c’è che dire, perché in questo caso hanno messo in discussione tutta la propria reputazione e un canovaccio sonoro consolidato nella sua varietà e incisività. Le nove tracce presentate sono tappe obbligate di un viaggio scomodo nei disagi e nelle irritazioni vissute dall’individuo medio oggigiorno, uno sguardo disincantato ai danni che la persecuzione del successo a ogni costo comporta. Lo scoramento, il senso di annullamento di se stessi nella ricerca di obiettivi futili e insignificanti viene esemplificato con gli accostamenti cromatici eccessivi della cover, e l’immagine semplice ma lampante della sconfitta ritratta in copertina rende perfettamente l’idea di cosa voglia dire, per molti individui, la vita moderna. Esprime nausea, “Success”, per un modo di pensare e di costruire l’esistenza che, secondo la prospettiva dei Ken Mode, è semplicemente mostruoso. Per estrinsecare le proprie riflessioni in materia, i fratelli Matthewson e il bassista Skot Hamilton usano un linguaggio semplice e spietato, che li pone sullo stesso piano, per buona parte della release, e dei Refused. L’apertura però è molto più dura e frastornante, visto che “Blessed” è una sorta di malato terminale ricoperto di fili elettrici scoperti, in avanzamento incerto e malfermo. Un suono slabbrato, infettivo, colmo di fischi ed effetti drogati, disagevoli come i migliori Nine Inch Nails, si fa strada nella nostra testa, e la manda in tilt, la pone in una condizione di vero disagio, di fronte a tanta acidità e rabbia repressa. Si nota subito un piglio vocale molto diverso dal passato, con molte spoken word e urla stridule a rincorrersi e ad azzuffarsi a vicenda. “These Tight Jeans” propone tutt’altri Ken Mode: un basso molto punk apre le danze, e ci conduce attraverso una struttura scheletrica, mentre un controcanto femminile da ragazzina ribelle si dà il cambio con le rabbiose invettive di Jesse. L’insieme saltellante e quasi sbarazzino potrebbe urtare i fan di lunga data, noi ci cogliamo una sorta di cazzeggio creativo alla Faith No More nient’affatto disprezzabile. La produzione scarna di Albini abbassa il peso specifico delle chitarre e ne mette in luce le screziate melodie, all’interno di un brano disadorno e semplicissimo, ma per conto nostro pienamente riuscito. “The Owl” trova un punto di mediazione fra le due prime tracce: percuotimento ai fianchi controllato, effettistica abbastanza atmosferica e misuratamente aggressiva, con il passaggio dai rumori di fondo a scorie radioattive secondo una progressione tutt’altro che frenetica. Infine, ecco un bel basso post-punk a conferire un regime decadente/romantico, qualcosa di già provato in “Entrench”, nella bellissima “Romeo Must Never Know”. Il riff principale è pura soda caustica, dondolante e invasivo, in delizioso contrasto con gli interventi di archi, pochi ma fondamentali nell’indirizzare gli umori del pezzo nella giusta direzione. “I Just Liked Fire” invece scorre via senza regalare sussulti, carina ma un po’ povera di contenuti. Con “Management Control” i Ken Mode riprendono il controllo della situazione, maneggiando con perizia gli stilemi dello screamo più intimista, con aperture malinconiche tanto semplici quanto toccanti. Anche J. Matthewson canta in questo caso in maniera molto pulita per i suoi standard, assecondando l’ariosità delle chitarre, stemperanti i normali ardori in liquide melodie. Arriva quindi una bella legnata nelle sembianze di “A Passive Disaster”, l’episodio più vicino al mood di “Entrench”, con le chitarre a stridere che è un piacere, e il basso che sgocciola irrequietezza e senso di abbandono in egual misura. Se “Failing At Fun Since 1981” e “A Catalog Of Small Disappointments” sono ottimi colpi di assestamento, una nuova primizia è in agguato con la conclusiva “Dead Actors”. Il cantato beffardo e stonato udito in quasi tutto il disco lascia spazio a un parlato che fa assomigliare il brano a un’amara recita, con arie soffuse a farla da padrone e una finezza di caratura superiore negli arrangiamenti. Se vi vengono in mente i frangenti più tranquilli di un certo “The Shape Of Punk To Come”, siete sulla strada giusta. L’ascolto, visto il grosso fattore sorpresa insito nei solchi del disco, e la frizzantezza di quasi tutto il nuovo materiale, si rivela essere molto stimolante. Certo, la “botta” di suono del passato qua viene a mancare, anche per scelte di produzione ben precise: per questo, preferiamo leggermente gli ultimi album, ma siamo certi che anche “Success” abbia tutte le carte in regola per appassionarvi e farvi scorrere l’adrenalina nelle vene.