7.5
- Band: KEN MODE
- Durata: 00:39:45
- Disponibile dal: 22/09/2023
- Etichetta:
- Artoffact Records
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Non si arrendono proprio mai, i Ken Mode. Gli alfieri del noise rock-metal hanno sempre goduto di un successo di critica inversamente proporzionale a quello di pubblico – chi ha assistito ad alcuni dei loro ben poco affollati concerti potrà confermare.
Nonostante la ricetta alla base della loro proposta non abbia subito mutazioni sostanziali negli anni – tolta la parentesi più orientata all’indie rock di “Success” – la capacità di scrivere ottime canzoni, dosare attentamente ferocia dilaniante e atmosfere subdole e angoscianti, hanno permesso alla creatura dei fratelli Matthewson di rimanere forte e valorosa nel suo ambito di riferimento.
A partire dal cupo “Loved”, il terzetto si è arricchito, prima come ospite, quindi come presenza in pianta stabile, della sassofonista Kathryn Kerr, per un contributo in termini di inventiva e ‘stortezza’ via via crescente. Fino ad arrivare, oggi, a questo “Void”, che come da titolo e lavoro grafico vuole essere il fratello, dal carattere lievemente differente, del recente “Null”.
Con esso i Ken Mode avevano spostato decisamente il baricentro della propria manovra nel proprio natio Canada, accasandosi per la label locale Artoffact Records e di fatto, complici le spese folli per un tour europeo per un gruppo dai bassi numeri come il loro, non affacciandosi più fuori pandemia dal Nord America nel post-pandemia (mentre, è notizia recente, sono stati confermati all’ArcTanGent festival inglese del 2024). Questo li ha tolti ancora più dai radar dei fan europei, invero nemmeno chissà quanto ricettivi nei loro confronti. Sarà quell’essere un po’ a metà strada, tra i mondi del noise rock e dell’extreme metal, ad averli fregati: è l’eterno destino, con qualche lodevole eccezione, di chi sta a cavallo tra i generi e non incrocia i favori di un pubblico ben definito. Condizione che, va detto, non ha mai depresso i canadesi.
Sul piano creativo, l’ora quartetto non solo non abbassa la testa, ma si rende nuovamente protagonista di un disco molto riuscito e che ne rilancia la capacità di mediare tra partiture di raggelante violenza, soffocanti nel loro livore, e dilatazioni di spazi e tempi che, proprio grazie al contributo della Kerr, hanno raggiunto una capacità evocativa nuova. Col trascorrere dei dischi, e questo è ormai il terzo con questa musicista a dare il suo contributo, la fusione degli elementi ‘tradizionali’ del suono Ken Mode e del sassofono di impronta sperimentale si è fatta sempre più intrigante. Proprio per la sua vena meno irruenta e istintiva, “Void” sotto diversi aspetti potrebbe pure diventare il disco ideale per avvicinarsi ai Ken Mode. Difatti, all’interno di una discografia di qualità molto omogenea, quest’ultimo potrebbe spiccare proprio per la frequenza con cui la band dismette relativamente i suoi panni corazzati, concedendosi toni malinconici e parzialmente distesi, pur restando nei reami di una musica plumbea, pericolosa, rabbrividente.
Si sta allora così, in bilico sul precipizio, in precario equilibrio tra chitarre allungate e dissonanti, con il basso a ruminare note legnose e ostili in primo piano e le urla scheggiate di Jesse Matthewson, nell’opener “The Shrike”. Ritmi sghembi, mai granché lineari, ma attraversati da ferocia primitiva, sono anche ciò che ci offre la seconda “Painless”, con giusto una comparsata del sax a far scodare il brano verso una prospettiva difforme da quella ‘classica’ della band. Con “These Wires” si svolta, andando a toccare corde emotive più fragili e prendendosi il tempo per uno sviluppo avvolgente, con delicate note di piano a tastare il terreno e a farci trasognare.
Non si parla strettamente di una novità assoluta, perché anche in passato si trovavano tracce con questo tono più intimista e disteso; è vero invece che queste tonalità assumono un peso più importante nel disco nella sua interezza, e le melodie messe in primo piano possono spargersi libere e prive di minacce.
In “We’re Small Enough” i sintetizzatori danno particolari sfumature spaziali all’insieme, che ridiventa più brusco e minaccioso con “I Cannot”. Tuttavia, la proverbiale furia nichilista viene costantemente ammansita da un lavoro di chitarra più sottile del solito, ondivago e che predilige svolte sornione, invece che triturare i padiglioni auricolari. Un filo conduttore fatto di dissonanze felpate, stridori ed escursioni in asfittiche trame sludge, che non paiono comunque rinunciare a un pizzico d’atmosfera.
“A Reluctance Of Being” ci fa assaporare un retrogusto jazz non così dissimile dai The Dillinger Escape Plan in versione soft, cresce di intensità poco per volta, sputa rabbia e diventa aguzza, eppure la violenza rimane più mentale che poderosamente fisica. Il pezzo più importante, fin struggente nei suoi momenti più minimali, è “He Was a Good Man, He Was a Taxpayer”, una specie di versione dei Ken Mode quando provano a indossare i panni dei cantastorie. Una specie di ‘singolo’, un riassunto perfetto degli intenti di “Void”.
Tante facce, tanti impulsi, quelli forniti dai Ken Mode: il controcanto di “Null” non delude affatto e tiene alta la bandiera del noise, confermando i canadesi come attori protagonisti in questo scenario.